10/04/2017

intervista di Vincenzo Califano

Dal nuovo romanzo di Raffaele Lauro emerge in maniera organica, quasi didascalica, la filosofia gastronomica dello chef santagatese, don Alfonso Iaccarino, considerato universalmente, come uno dei “maestri”, a livello mondiale, della cucina mediterranea. Un libro, quindi, che andrebbe studiato nelle scuole di cucina. Come tutti i precedenti lavori di Lauro, anche quest’ultimo, si presta a diversi livelli di lettura: la consacrazione de “La Terra delle Sirene”, dai Monti Lattari alla Punta della Campanella, nello spirito mitologico di Norman Douglas; la celebrazione del legame affettivo del grande poeta napoletano, Salvatore Di Giacomo, prima con Agerola, poi con Sant’Agata sui Due Golfi, dove soggiornò, nei mesi caldi, dal 1909 al 1930; la ricostruzione del periodo d’oro della canzone classica napoletana, che Lauro identifica nel capolavoro di Di Giacomo, “Era de maggio”; la tragedia, umana e familiare, della imponente emigrazione meridionale, anche di minori, verso le Americhe, alla ricerca di lavoro, a cavallo tra l’Ottocento e il Novecento; l’epopea umana, familiare e imprenditoriale di don Alfonso Costanzo Iaccarino, collegata allo sviluppo economico e sociale di Sant’Agata sui Due Golfi, come località di soggiorno climatico. Il tema centrale, comunque, è costituito dalla cucina mediterranea, di grande interesse per la cultura dell’accoglienza e per l’economia di tutta la Penisola Sorrentina, alla vigilia della Santa Pasqua, con l’avvio della stagione turistica 2017.

 

D.: Partiamo da due domande di carattere generale. Dopo “La Trilogia Sorrentina”, con un romanzo storico e due romanzi biografici, dedicati a Lucio Dalla e a Violetta Elvin, dobbiamo aspettarci, per caso, una “trilogia gastronomica”, dedicata ai ristoranti e ai numerosi chef stellati della Penisola Sorrentina?

R.: Sarei vivamente onorato di poter rendere un omaggio narrativo a tutti i fondatori delle numerose dinastie alberghiere e della ristorazione, fiorite, nella nostra costiera, da Massa Lubrense a Vico Equense, in più di un secolo e mezzo. Non basterebbe, tuttavia, né una trilogia, tantomeno una vita intera. Io apro una strada, altri seguiranno. In ogni caso, posso anticipare, fin d’ora, che il secondo romanzo gastronomico, come lei li definisce, uscirà nel 2018 e sarà dedicato a don Peppino Manniello, ai suoi figli, Tonino, Enzo e Mario, e al loro celebre ristorante ’O Parrucchiano, una gloria di Sorrento a livello internazionale.

D.: E il terzo?

R.: Avrò solo l’imbarazzo della scelta!

D.: Quali sono stati i suoi criteri di scelta? Perché questi due ristoranti, queste due dinastie, gli Iaccarino e i Manniello, e non altri?

R.: Mi soccorrono criteri oggettivi e criteri soggettivi. Il Don Alfonso 1890 viene giudicato, oggi, al di là della graduatorie specializzate (e, spesso, condizionate da interessi), come il quinto ristorante al mondo, nell’alta cucina, per il gradimento della clientela. ’O Parrucchiano, un’oasi della Natura e dei sapori della tradizione, nel cuore di Sorrento, rappresenta un’eccellenza nazionale della cucina sorrentina e campana.

D.: I criteri soggettivi?

R.: Sono per me prevalenti. Sono legatissimo da sentimenti di antica stima, di amicizia familiare e di personale ammirazione per Alfonso e Livia Iaccarino. Allo stesso modo, ai fratelli Manniello. Inoltre, ho conosciuto e stimato molto don Peppino Manniello. Per carità, in costiera ci sono almeno altri dieci ristoranti e altrettanti chef stellati, che meriterebbero analoghe attenzioni, ma non li conosco da vicino. Non ci sarebbe il sentimento. Senza il sentimento non si scrive niente! Si fanno annunzi promozionali. 

D.: Si tratta di scelte sentimentali, quindi?

R.: Scelte “prevalentemente” sentimentali. Sono stato letteralmente affascinato, “rapito”, “preso”, dalla vicenda umana, familiare e imprenditoriale di don Alfonso Costanzo Iaccarino, il fondatore, il nonno di don Alfonso. Una vita che diventa romanzo, la sua, un romanzo che diventa vita. Quattro generazioni di Iaccarino: dal fondatore al figlio Ernesto, dal nipote Alfonso al pronipote Ernesto. Da storico, di ispirazione crociana, prediligo sempre le storie, metaforiche, emblematiche, capaci anche di esprimere i passaggi generazionali, i legami con la terra di origine e le evoluzioni culturali. Dal particolare all’universale.

D.: Esiste, quindi, uno stretto rapporto tra cucina e cultura, tra evoluzioni culinarie ed evoluzioni culturali?

R.: La cucina è cultura. Cultura di popolo, prima che cultura di élite. Identità di popolo, saggezza di popolo, legame con il territorio e con i suoi prodotti naturali, frutto dell’esperienza di generazioni e anche di contaminazione tra culture diverse. Don Alfonso fonda su questo principio la sua filosofia gastronomica!

D.: Vale anche per l’alta cucina, raffinata e inaccessibile ai più?

C.: Anche per l’alta cucina, purché questa non diventi una sovrastruttura artificiosa, slegata dal territorio, presuntuosamente creativa, a prescindere dalla qualità e dai sapori degli ingredienti naturali. Per questa ragione, Alfonso e Livia Iaccarino comprarono, nel 1990, a Punta della Campanella, la tenuta Le Peracciole, una pietraia incolta, di fronte al panorama più bello del mondo, trasformata da loro, con i loro sacrifici, con la loro tenacia, con la loro intelligenza, in una tenuta agricola fertile e ubertosa!

D.: Esiste un rapporto diretto tra le colture della tenuta e la cucina mediterranea di don Alfonso?

R.: Nelle mie conversazioni con Alfonso e Livia avevo compreso l’importanza di questo rapporto, quasi un nesso causale, ma ne ho colto la portata solo visitando Le Peracciole e ascoltando don Alfonso, mentre ne illustrava il percorso, tra limoneti, uliveti, orti, erbe officinali e, perché no?, siepi di gardenie profumate, a dei giornalisti inglesi. Le Peracciole non sono una qualsivoglia proprietà agricola, dove si coltivano gli ingredienti di base, per una cucina, naturale e sana, come quella mediterranea, ma rappresentano, come luogo, l’identità stessa della filosofia gastronomica di don Alfonso. Una filosofia che non conserva semplicemente il passato, la tradizione, ma la innova, purché la materia-base continui ad essere la più genuina possibile, con la tutela degli odori, dei profumi e dei sapori antichi.

D.: In cosa consiste, quindi, l’eredità di don Alfonso rispetto al nonno Alfonso Costanzo?

R.: Da questo punto di vista, non esiste una soluzione di continuità tra i fondamenti della filosofia gastronomica del nonno e quella di don Alfonso. Anche il nonno comprava giardini, orti, frutteti, allevava maiali, capretti e mucche, per offrire, ai propri clienti della Pensione Iaccarino, prodotti di eccellenza, prodotti di qualità. Solo i pesci di prima scelta e le aragoste arrivavano alla pensione-ristorante dai pescatori di Crapolla. Il resto, dal vino all’olio, dalla frutta ai prosciutti, dai sottolio ai sottaceti, dalle conserve alle confetture, veniva prodotto all’interno dell’azienda familiare. Naturalmente, don Alfonso ha portato il trinomio tradizione-innovazione-creatività, a livello internazionale. La migliore definizione della rivoluzione di don Alfonso e di Livia, l’ha data il grande enogastronomo, Gino Veronelli, il loro mentore: “Alfonso e Livia sanno bene che la tradizione è una irrinunciabile piattaforma su cui poggiare i piedi, per rendere sicuro e possente il balzo in avanti, piatti nostri e piatti nuovi, perché creati dal loro genio e dalla loro fantasia, nel rispetto dei mutamenti. La Penisola Sorrentina ha il privilegio dell’opera di questi due personaggi del mio innamoramento”.

D.: Nel libro si fa riferimento ad alcune celebri ricette del nonno e di don Alfonso.

R.: Non potevano mancare, in relazione alle preferenze e ai gusti dei personaggi famosi, ospitati presso la Pensione Iaccarino, a partire dal poeta Salvatore Di Giacomo. Questi, ad esempio, amava la quaglia, alle erbe aromatiche, cotta, al forno, dentro una patata. Don Alfonso Costanzo conosceva tutti i gusti del suoi clienti abituali. Ho ricostruito, tra l’altro, la storia “vera” dei celebri strascinati, esaltati, in versi vernacolari, dal poeta sorrentino Saltovar e prediletti dallo scrittore austro-scozzese Norman Douglas. Per don Alonso, ho fatto riferimento alle ricette più congeniali all’andamento della narrazione e alle numerose conversazioni, preparatorie alla scrittura, che ho avuto con Alfonso e Livia, senza rinunziare ad attingere ai libri di cucina di Alfonso. Il libro non è un ricettario, ma la storia della cucina Iaccarino, attraverso quattro generazioni: il nonno Alfonso Costanzo, il padre Ernesto, don Alfonso e il figlio Ernesto, il quale, con il fratello Mario, raccoglierà il testimone del Don Afonso 1890.

D.: Di tutti gli ingredienti, ne esiste uno che attraversa le quattro generazioni degli Iaccarino?

R.: Ne esistono molti, difficile scegliere, ma il limone regna sovrano nei dessert, dal nonno al pronipote. Il trionfo del limone, la poesia del limone, il profumo dei limoni, colti, ogni giorno, di prima mattina, nel giardino dell’Eden, a Le Peracciole. Il Concerto di Limone. O, meglio, la Sinfonia del Limone. Natura, mitologia, musica, pittura e poesia, al servizio della creatività culinaria di don Alfonso.

D.: Molti chef stellati si vantano, a destra e a manca, di essere, in cucina, nel meglio, dei direttori d’orchestra e, nel peggio, dei dittatori. Secondo lei, don Alfonso Iaccarino dove si colloca tra questi due poli?

R.: Ne abbiamo parlato. Lui non è uno chef ipermediatico, votato più a stare in televisione che in cucina, più negli spot pubblicitari che tra i fornelli. Tiene i piedi per terra. Sa che il successo non garantisce niente a nessuno e che non si può dormire sugli allori. Lui, in cucina, nei confronti dei collaboratori, pur consapevole della necessità dell’ordine e della disciplina, punta più sull’autorevolezza che sull’autoritarismo, più sulla reciproca considerazione, tra chi comanda e chi esegue, che sugli ordini perentori.

D.: Ho letto di quanto gli Iaccarino siano stati gratificati dalla stima del presidente Carlo Azeglio Ciampi e dall’amicizia con suo fratello Nello, scomparso nel 2008.

R.: Carlo Azeglio Ciampi, sia da governatore della Banca d’Italia che da presidente della Repubblica, è stato, insieme con la moglie Franca, un cliente affezionato del Don Alfonso 1890. Ha sempre incoraggiato don Alfonso, fin dagli esordi, giudicandolo una eccellenza italiana nel mondo. E non si sbagliava. L’amicizia del mio compianto fratello Nello, con Alfonso e Livia, fa parte ormai del nostro comune patrimonio familiare. Per tale ragione, la seconda parte del mio romanzo è occupata interamente da un dialogo tra Nello e Alfonso, sintesi di due storie straordinarie, di due personaggi, che, a livello internazionale, hanno reso e rendono onore alla loro terra natale, diventando “maestri’ di molti allievi di successo. Il primo, nell’arte dell’ospitalità alberghiera; il secondo, nella cucina mediterranea e nella creatività gastronomica.

D.: Quando e dove sarà presentata, in anteprima, questa nuova fatica narrativa?

R.: In estate e inizierà il suo cammino, spero lungo, da Sant’Agata sui Due Golfi e da Agerola.

In bocca al lupo, prof!

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