20/04/2017

di Antonino Siniscalchi

Le principali location del nuovo romanzo di Raffaele Lauro, “Don Alfonso 1890 - Salvatore Di Giacomo e Sant’Agata sui Due Golfi”, edito da GoldenGate Edizioni di Roma, vanno dai Monti Lattari alla Punta della Campanella, dai Bagni dello Scrajo di Vico Equense alla Piazza Tasso di Sorrento, dal porto di Napoli a quello di New York, da Little Italy a Staten Island, da Monte San Costanzo al piccolo fiordo di Crapolla. I due poli fondamentali, tuttavia, tra i quali si snodano le vicende narrative del grande poeta napoletano Salvatore Di Giacomo e di don Alfonso Costanzo Iaccarino, proprietario della Pensione Iaccarino, un albergo-ristorante, aperto nel 1890, sono Agerola e Sant’Agata sui Due Golfi. Due località amatissime da Di Giacomo, la prima submontata, la seconda collinare. Luoghi climatici entrambi prediletti dai napoletani più abbienti, perché, d’estate, vi si respirava aria fresca, salubre, tonificante, “mbarzamata”; si mangiava genuino e, in ogni ora del giorno o della notte, sotto la luce del sole o della luna, si godevano panorami mozzafiato dai balconi naturali, affacciati sopra il mare della costiera amalfitana (da Agerola), o su quello dei due golfi, Napoli e Salerno (da Sant’Agata sui Due Golfi). La scrittura sempre cinematografica dell’Autore, per me il prof, con uno stile più da sceneggiatore che da romanziere, restituisce, evocativamente, al lettore, storia, bellezze naturali, colori, profumi, sensazioni, percezioni non solo visive, legate, in particolare, per chi è nato in uno di questi due borghi, ai ricordi di infanzia, alle memorie familiari, agli odori di cibo antico, alle feste di paese, alle voci del passato e a momenti intensi di vita comunitaria di queste terre benedette da Dio, come le vendemmie, la raccolta delle mele limoncelle e la sagra delle ciliegie tardive. Da santagatese, innamorato del mio paese, mi sono riconosciuto, ritrovato e commosso, nelle pagine di Lauro, dedicate a Sant’Agata sui Due Golfi. Senza cedere a sentimentalismi, devo confessare che il mio cuore ha spesso sobbalzato e la memoria mi ha travolto. Grazie, prof! Con questi sentimenti di personale riconoscenza, da santagatese, gli ho posto alcune domande.

D.: Da Agerola a Sant’Agata sui Due Golfi, i due poli dei soggiorni estivi di Salvatore Di Giacomo. Il grande poeta napoletano, quindi, abbandonò la località submontana per quella collinare, per il mio borgo? Fu un tradimento di Agerola?

R.: Affatto, nessun tradimento, piuttosto un “doppio” innamoramento. Di Giacomo, dalla fine dell’Ottocento, come il drammaturgo Roberto Bracco e il compositore Francesco Cilea, amava soggiornare, per lunghi periodi estivi, ad Agerola, per sfuggire al caldo afoso di Napoli, come molte altre personalità del mondo politico, culturale e canzonettistico napoletano. Cito, per tutti, Benedetto Croce. Era letteralmente invaghito della luna di Agerola, la luna nuova, alla quale aveva dedicato molti versi famosi, che, poi, sarebbero stati musicati. Agerola, quindi, dalla fine dell’Ottocento e, ancor più, nei primi anni del Novecento, era divenuta una meta agognata. Da Napoli, tutti vi ricercavano il fresco, la tranquillità, la quiete, il mangiar semplice, momenti di relax e di riflessione, un luogo per concepire e scrivere altre opere. Fino al 1908, Agerola era l’unico luogo dell’anima di don Salvatore.

D.: Cosa amava Di Giacomo di Agerola, come meta dei suoi soggiorni?

R.: Amava tutto di Agerola, anche la discreta ospitalità degli agerolesi, ma, in particolare, l’aria alpestre, molto ossigenata, che scendeva, come una brezza, dai circa 1400 metri dei monti e l’aria marina, ricca di iodio, che saliva, come brezza, per circa 800 metri, dalla distesa del mare. Brezze entrambe mescolate ai profumi delle diffuse erbe aromatiche e delle piante in fiore. Albergava, in genere, nella frazione di San Lazzaro, la più scenografica e panoramica di tutte, che percorreva a passeggio fino al belvedere, a strapiombo sul mare, una vera fonte di ispirazione. Ma si spostava anche nelle altre frazioni, i vecchi casali, autentiche gemme abitative della corona agerolese: la pianeggiante Pianillo, la popolosa Bomerano, la campestre Campora, la strategica Ponte, oltre alla panoramica San Lazzaro.

D.: Dopo, Di Giacomo scoprì Sant’Agata sui Due Golfi e iniziò a soggiornare, dal 1909 fino al 1930, per circa ventuno anni, nel nostro borgo! Come avvenne il fatale incontro?

R.: L’ho collocato, per esclusione, nell’estate del 1908. Galeotto fu un pranzo, a fine agosto, alla Pensione Iaccarino. E ancor più galeotta fu l’accoglienza e l’ospitalità che gli fu riservata, insieme con i suoi amici, Bracco e Cilea, da don Alfonso Costanzo Iaccarino, della cui pregiata cucina aveva sentito parlare, a Napoli, negli ambienti della Piedigrotta. Di Giacomo era un gourmet, un appassionato della buona tavola. Fu un colpo di fulmine! Non solo gastronomico, ma di affinità elettive, di simpatia umana e di affettuosa corrispondenza. Inoltre, il trentaseienne albergatore e ristoratore santagatese era un fan delle canzoni scritte da Di Giacomo, a partire dal suo capolavoro, “Era de maggio”, che il giovane tenore Enrico Caruso gli aveva cantato, dal vivo, nella sala da pranzo della pensione.

D.: Non si innamorò Di Giacomo anche delle bellezze naturali di Sant’Agata e di Massa Lubrense, o soltanto della cucina di don Alfonso Costanzo Iaccarino?

R.: Posso dire che si innamorò prima della cucina e, poi, della natura santagatese e massese. La scoprì, l’anno successivo, quanto scelse il borgo per un soggiorno breve, quasi di prova. Riscontrò così, che come ad Agerola, anche a Sant’Agata si godessero le stesse brezze profumate, la stessa aria rigeneratrice, gli stessi incantevoli panorami, peraltro su due golfi, la stessa luna nuova, gli stessi olezzi, la stessa cortesia della gente, tranquillità, pace, nonché l’acqua fresca sorgiva della Fonte di Canale, il Deserto, Santa Maria della Neve. In più, beneficiava dell’amicizia e del supporto organizzativo di don Alfonso Costanzo Iaccarino, la pensione, il ristorante e una cucina mediterranea dai sapori antichi. E le aragoste portate dai pescatori di Crapolla, delle quali era ghiotto! Da quel momento, non abbandonò più Sant’Agata sui Due Golfi. Vi ritornò per ventuno anni, fino a quella disgraziata estate del 1930, quando fu colpito da un terribile attacco semiparalizzante di uricemia e fu costretto ad abbandonare d’urgenza il borgo amato, in autoambulanza, venuta da Napoli a prelevarlo, per il ricovero in ospedale.

D.: Fu quello l’addio di Di Giacomo a Sant’Agata?

R.: Non vi potette ritornare per due ragioni. Le condizioni di salute si aggravarono, non uscì più di casa, dall’ultima dimora, in via San Pasquale a Chiaia, 35, fino alla morte che lo colse nel 1934. Le sue condizioni economiche divennero sempre più precarie, in quanto non era più in grado di scrivere. Lo confortarono, come ho riscontrato, i ricordi dei soggiorni ad Agerola e a Sant’Agata sui Due Golfi.

D.: Ho trovato, tra tutti i luoghi santagatesi, che hai descritto, prof, nel romanzo, di grande potenza narrativa la descrizione della prima passeggiata di don Salvatore e di don Alfonso Costanzo alla Fonte di Canale. Forse perché in quella stessa via ho vissuto con la mia famiglia.

R.: Via Canale è “cuore” narrativo del romanzo. Vi erano nati i genitori di don Alfonso Costanzo, Luigi e (Maria) Rosa. Vi era nato il futuro ristoratore e vi abitò fino a quando, a circa quattordici anni, emigrò in America e, nei terribili momenti di nostalgia oltreoceano, ricordava i giochi con i compagni alla Fonte di Canale. Don Salvatore procede, scendendo, con la sua famosa Kodak e fotografa le lavandaie che salgono dal lavatoio, cariche sulla testa delle conche, ripiene di panni lavati da stendere al sole, qualcuna anche con un bambino in braccio. Una scena esaltante, anche perché mette a fuoco tutta la storia umana e professionale di Salvatore di Giacomo: cronista di nera, giornalista, fotografo delle lavandaie del Vomero e della Napoli scomparsa, sotto i colpi del risanamento post colera, intellettuale, bibliotecario, uomo amante della natura e della bellezza.

D.: Sublime, poi, il canto delle lavandaie che sale dal lavatoio della Fonte di Canale, che prima stupisce e, poi, coinvolge emotivamente sia il poeta napoletano che il ristoratore santagatese. Un momento intensissimo!

R.: Il lavatoio, vicino alla fonte sorgiva, era uno dei pochi luoghi di socializzazione femminile, dai primi dell’Ottocento. Socializzazione che si esprimeva attraverso canti popolari, antichissimi. Cultura popolare. Canti di protesta contro le occupazioni straniere. Avevo riscontrato, inoltre, la passione fotografica Di Giacomo per le lavandaie del Vomero. Questi elementi si prestavano ad un omaggio non solo al grande poeta, ma alle origini stesse della più antica canzone napoletana. Jesce sole, jesce sole! E al maestro Roberto De Simone e alla sua meravigliosa “Gatta Cenerentola”.

D.: La Fonte di Canale è cultura popolare, melodia, musica. Cosa rappresenta, inoltre, nel romanzo, Monte San Costanzo?

R.: Monte San Costanzo costituisce l’esaltazione massima della straordinarietà naturale della nostra terra. Non esiste al mondo un luogo, un punto di osservazione, che sia del pari, dal quale si possa ammirare tanta bellezza insieme, facendo un giro di trecentosessanta gradi su se stessi. I Monti Lattari, le due costiere, i due golfi, Capri, Ischia, Procida, i Campi Flegrei, il Vesuvio, Li Galli... il mare, il cielo… le sirene…

D.: Quando salgo su Monte San Costanzo perdo il contatto con la realtà...

R.: Lo credo. Tempio profano e sacro, espressione del mito classico e della devozione religiosa cristiana, sintesi suprema della nostra storia, delle nostre tradizioni e degli accadimenti, anche tragici, che hanno, per secoli, coinvolto gli abitatori, antichi e recenti, della Terra delle Sirene.

D.: Se qualcuno potesse esalare l’ultimo respiro, da Monte San Costanzo, con negli occhi la luce di un’alba o di un tramonto, il transito sarebbe... sarebbe...

R.: L’anticamera del Paradiso?

D.: Si, prof, proprio l’anticamera del Paradiso!

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