29/04/2017
di Francesca Maresca
Non è facile scoprire tra le centinaia di pagine di un romanzo, una celebrazione, non rituale, tantomeno non retorica, ma intensa, emozionante e personalizzata, del periodo d’oro della canzone classica napoletana, fiorita, appunto a Napoli, nell’ambito della festa di Piedigrotta, tra la fine dell’Ottocento e la prima metà del Novecento, attraverso i suoi più celebri protagonisti, parolieri, compositori e case editrici musicali. Tra questi, un ruolo centrale spetta a Salvatore Di Giacomo, il grande poeta napoletano, coprotagonista del nuovo romanzo di Raffaele Lauro, “Don Alfonso 1890 - Salvatore Di Giacomo e Sant’Agata sui Due Golfi”. Canzoni e ricette, creatività poetico-musicale e creatività gastronomica, in un intreccio di sentimenti di amicizia e di ammirazione reciproca, tra don Alfonso Costanzo Iaccarino, il grande ristoratore di Sant’Agata sui Due Golfi e l’autore del testo di “Era de maggio”, il dono più alto lasciato da Di Giacomo alla sua Napoli e al mondo della musica, il suo capolavoro in versi. Allo stesso modo, un dono sorprendente e prezioso risulta questo libro, per tutti, a partire da me, appassionata interprete della canzone napoletana. Vi ho ritrovato il clima, gioioso, sentimentale e fervido, di una Napoli felice, piena di sole, di profumi, di parole, di melodie e di amore per la vita. Di una Napoli, ahimè, ormai scomparsa, che Lauro ci restituisce, come in un bellissimo sogno. Lo dico non da estimatrice di Raffaele, lui non ne avrebbe bisogno, ma da amica di tanti personaggi canori, ricordati in queste pagine. Ne ho parlato con l’Autore, in una lunghissima conversazione telefonica, che, su sua espressa richiesta, ho cercato di ricostruire. Anche se solo parzialmente.
D.: Questo tuo nuovo romanzo, “Don Alfonso 1890 - Salvatore Di Giacomo e Sant’Agata sui Due Golfi”, trasuda bellezza, armonia, gioia di vivere, natura, buon gusto e amore. Tanto amore. In tempi così prosaici, per certi versi così volgari, oltraggiosi e avvilenti. Donde deriva questa tua ispirazione, questa magia?
R.: La tua, cara Francesca, appare una domanda retorica. Come se ti chiedessi, donde deriva la tua passione nell’interpretare i classici della canzone napoletana. Quanto più la realtà è cruda, tanto più l’animo è spinto ad esaltare i sentimenti ideali, i valori dell’assoluto, ciò che l’uomo ha creato come portato del divino, che è in lui, la filosofia, la poesia, la musica. Inoltre, l’amore, la passione, l’eros. E anche la canzone napoletana, insuperata e insuperabile fusione di poesia e di musica, come nel capolavoro di Di Giacomo. Abbiamo il dovere di trasmettere tutto questo ai giovani, prima che sia troppo tardi.
D.: Hai il timore che tutto questo mondo di armonie e di luce possa soccombere, cadere nell’oblio, scomparire nel buio? Non lo hai sempre definito immortale?
R.: Per me, per te, resta immortale. Relativamente a noi. Se questa cultura popolare, anima stessa di un popolo, non facesse più parte del patrimonio dell’umanità, perché tale resta, rischierebbe di scomparire. Prova ad immaginare, per un attimo, se a Napoli, nessuno, di colpo, ricordasse più le parole e la musica di “’O sole mio”! Se nessuno ricordasse le mille melodie di Piedigrotta? Questo timore, questa paura, mi hanno sostenuto nella scrittura di questo romanzo.
D.: Come sei riuscito a trasferire, nel libro, il clima festoso e creativo della Piedigrotta di fine Ottocento? Le donne come muse ispiratrici? Il rapporto della Piedigrotta con il Conservatorio di San Pietro a Majella? Mi ha deliziato la scena delle audizioni!
R.: Senza le donne, le muse ispiratrici dei giornalisti-poeti, come Di Giacomo e Roberto Bracco, e del giovani compositori, provenienti dalle altre regioni meridionali, formatisi al Conservatorio di San Pietro a Majella, Piedigrotta sarebbe rimasta una festa religiosa, una sagra paesana, tra il sacro e il profano, non il luogo celebrativo della canzone storica napoletana. Innamoramenti, passioni, gelosie e tradimenti, forieri di autentici capolavori. Un paradiso femminile erano le gioiose audizioni piedigrottesche, con tutte quelle aspiranti cantanti, in attesa, giovanissime, bellissime e tremolanti per il debutto, pronte a passare dall’anonimato al successo del palcoscenico e diventare famose, richieste, come soubrette, nei Cafè Chantant di Napoli o nei teatri di Parigi.
D.: Credimi, mi ci sono riconosciuta in quelle ragazze in attesa dell’audizione. Per il successo, da Napoli a Parigi, hai scritto del debutto di una giovanissima Lina Cavalieri, al Salone Margherita, nel 1886.
R.: Figura emblematica di quel tempo. La Cavalieri aveva ventuno anni. Di Giacomo si spellò le mani ad applaudirla. La consacrazione napoletana le aprì le porte per i trionfi di Parigi, alle Folies Bergère, dove cantava “Era de maggio”, accompagnata da un’orchestra di chitarre e mandolini, tutta al femminile...
D.: Mi fai venire i brividi, quando dici che queste opere d’arte possano scomparire. Napoli senza “’O sole mio”! Un orrore. Torniamo al filo conduttore musicale del libro, “Era de maggio”, che cantava, a Parigi, anche Lina Cavalieri. Come nasce questa tua idea?
R.: Non nasce dal nulla, non è un parto della mia immaginazione. L’ho dedotta da Lucio Dalla!
D.: Lucio Dalla? Quando, dove, come?
R.: Se digiti su Google, Lucio Dalla e “Era de maggio”, trovi un filmato di Lucio che la canta, in un concerto su RAI 1, dopo aver affermato che “Era de maggio” rappresentasse, per lui, la più bella canzone della storia e che, al suo confronto, “Imagine” di John Lennon, classificatasi al primo posto in un referendum mondiale, fosse niente di più che “una cotoletta”! Testuale: una cotoletta! Da Dalla a Di Giacomo, da Di Giacomo a don Alfonso Costanzo Iaccarino, dal poeta all’amico ristoratore di Sant’Agata sui Due Golfi, il passo, per me, è stato breve.
D.: Quando, nel 1909, Di Giacomo iniziò i suoi soggiorni a Sant’Agata sui Due Golfi, nella Pensione Iaccarino, don Alfonso Costanzo già conosceva la canzone?
R.: Da circa venticinque anni. “Era de maggio”, una poesia di Di Giacomo, musicata da Pasquale Mario Costa, fu presentata, in pubblico, alla festa di Piedigrotta del 1885. Ebbe un immediato successo popolare. Il piccolo emigrante santagatese l’ascoltò, nel 1886, per la prima volta, sul molo del porto di Napoli, dove attendeva, con altre centinaia di emigranti, di imbarcarsi per l’America. Il ragazzo ne rimase travolto emotivamente e, da quel momento, quella canzone lo avrebbe accompagnato per tutta la vita, nei momenti di nostalgia della madre Rosa, a New York; nei momenti di gioia familiare al rientro in Italia; nella serenata d’amore alla futura moglie, Rosa; nella festa di matrimonio e in quelle di battesimo dei figli. Quando il giovane tenore Enrico Caruso, a fine secolo, gliela cantò al ristorante, quando la fece eseguire per la prima accoglienza, a Sant’Agata, di Salvatore Di Giacomo, oppure alla festa per l’elezione del figlio Luigi a sindaco di Massa Lubrense. L’ascoltava, inoltre, da nonno, nei pomeriggi estivi di riposo nella sua stanza. “Era de maggio” rappresentava la colonna sonora della sua vita. Lasciò questa passione in eredità morale ai figli e, in particolare, al nipote Alfonso, che ama, con la moglie Livia, questa canzone dello stesso intenso amore del nonno.
D.: Emozionante, veramente emozionante, Raffaele! Ho letto le parole di ringraziamento che, per questo, don Alfonso Costanzo rivolge al suo famoso ospite, nel 1909.
R.: “In America, maestro, senza la vostra canzone non avrei resistito quattro anni e senza la vostra canzone non sarei più ritornato. Il profumo del sentimento, che riuscite ad esprimere con la vostra poesia, mi ha salvato. Le rose di maggio sono parte della mia esistenza e della mia piccola storia di uomo: Rosa mia madre, Rosa mia moglie e le vostre rose, maestro Di Giacomo!”.
D.: Un uomo straordinario, don Alfonso Costanzo, come il nipote! La musica, la poesia, la cucina. Armonie sonore, armonie di sapori!
R.: Ti rispondo con le parole del protagonista del mio romanzo, sempre rivolte a Di Giacomo: “La cucina è amore, è passione, è contaminazione. Come le vostre canzoni. Quando le ascolti la prima volta, non le comprendi a fondo. Poi le riascolti: come se le aprissi, come se ci entrassi dentro e cogliessi i profumi delle parole e degli ingredienti. Quel profumo ti rimane nel cervello e ti accompagna per tutta la vita. Ti ricorda un istante felice, un’emozione infinita. Come le rose, quando rifioriscono a maggio, nel giardino della tua vita”.
D.: Sono quasi intimidita nel tornare a cantare “Era de maggio”! Anche se è stata sempre presente nel mio repertorio.
R.: Più che intimidita, forse avverti una maggiore responsabilità, conoscendo il giudizio di Dalla e il valore assoluto di questa grande canzone d’amore.