03/05/2017

di Carlo Alfaro

Chi vorrà porre mano, in futuro, all’analisi critica dell’opera narrativa di Raffaele Lauro, pervenuta felicemente, e con costante successo, alla sedicesima prova, con questo nuovo romanzo, dal titolo “Don Alfonso 1890 - Salvatore Di Giacomo e Sant’Agata sui Due Golfi”, in uscita a fine giugno prossimo, non potrà esimersi dal dedicare un intero capitolo alle figure femminili, descritte sempre, con grande ossequio e con rispetto, oserei dire, con devozione. D’altro canto, Lauro non ha fatto mai mistero, anche nei suoi interventi pubblici, da anni, attraverso apparenti battute, in realtà giudizi sostanziali, che saranno le donne “a salvare il mondo” e a porre rimedio agli errori storici commessi dagli uomini per cecità, per libidine di potere, per ingordigia di ricchezze e per delirio di onnipotenza. Dalle sue pagine emergono sempre donne forti, coraggiose, qualunque ruolo sociale occupino, determinate e insieme sensibili, siano esse casalinghe o imprenditrici, oppure mogli, madri, compagne di vita, amiche o amanti. Riecheggia in Lauro l’ammirazione profonda per le sue nonne: la materna, donna Peppinella De Simone, vedova Aiello, capo dell’azienda agricola familiare, e la paterna, donna Maddalena Russo, la quale giovanissima rimase vedova del marito, perito nella prima guerra mondiale, e lei, con tre orfani a carico, si rimboccò le maniche e si dedicò al lavoro di sarta per tirare avanti, con coraggio, indipendenza e dignità. Si avverte l’ammirazione totale per la madre Angela, alla quale ha dedicato, post mortem, i due volumi di “Quel film mai girato”, un’opera narrativa che affascinò molto Lucio Dalla e che il critico cinematografico, Gianluigi Rondi, definì, in una presentazione pubblica, a Roma, “un libro che ogni figlio avrebbe desiderato scrivere sulla propria madre”. Si sente in lui, da cristiano, una sincera devozione verso Maria, Madre di Misericordia e Madre di Dio, ponte di pace tra Cristianesimo e Islam, come ha testimoniato, di recente, in una conferenza pubblica. Anche in questo romanzo, quindi, emerge una galleria di figure femminili, tutte positive, che impreziosiscono il tessuto narrativo dell’opera e sembrano confermare il profetico auspicio dello scrittore sul ruolo determinante della donna nel futuro del mondo. Gli ho chiesto di confrontarmi con lui, come in passato, su questo aspetto non secondario del suo mondo poetico. Come sempre, il professore non si sottrae e risponde alle mie provocazioni, senza rete di protezione.

D.: Perché, nella sua opera narrativa, lei attribuisce alla figura femminile un ruolo così importante, assoluto, imprescindibile, insostituibile?

R.: Perché la figura femminile lo è oggettivamente, nella realtà storica e nella vita di ciascuno di noi. Non costituisce, quindi, una mia invenzione o un mero convincimento. Possiamo anche non avere una moglie o non essere padri di una figlia, ma non possiamo non essere figli di una madre.

D.: Eppure la scienza...

R.: Sono il più aperto al riconoscimento dei diritti costituzionali di tutti i cittadini e l’ho dimostrato, da parlamentare della Repubblica, con le mie proposte di legge, senza discriminazioni tra cittadini di serie A e di serie B, ma privare, per legge, un bambino della figura materna, sia essa madre naturale che adottiva, mi sembra una violenza intollerabile, espressione di egoismo, più che di amore. Se un robot impersonale, frutto del progresso scientifico (per me regresso, in questo caso!), dovesse essere capace anche di concepire, di gestire e di partorire un figlio, non cambierei il mio approccio. Il rapporto tra madre e figlio si nutre di un’interazione di sentimenti, di valori e di consonanze, non replicabili scientificamente. Basterebbe chiedere ad un orfano di madre o a chi non ha conosciuto, per congiunture negative, la propria genitrice, cosa gli sia mancato.

D.: In questo romanzo, come nei precedenti, la figura femminile domina sovrana, a partire dalla madre del protagonista, don Alfonso Costanzo Iaccarino, la signora Maria Rosa Persico, maritata con Luigi Iaccarino, chiamata da tutti Rosa, come Rosa si chiamerà la moglie del fondatore della dinastia Iaccarino, che gli avrebbe dato ben undici figli! Ho trovato semplicemente delizioso l’abbinamento, affettivo e olfattivo, tra le Rose (madre e moglie) della vita di don Alfonso Costanzo con le rose (fiori) della canzone, da lui amatissima, “Era de maggio”, il capolavoro di Salvatore Di Giacomo e di Pasquale Mario Costa.

R.: Tutto lu ciardino addurava de rose a ciento passe. Turnarraggio quanno tornano li rrose... si stu sciore torna a maggio, pure a maggio io stóngo ccá... Si stu sciore torna a maggio, pure a maggio io stóngo ccá. La canzone delle rose di Di Giacomo scandisce tutta la vita di don Alfonso Costanzo. Il rapporto con la madre, rimasta vedova, rappresenta un punto di riferimento essenziale, come risulta dalle lettere che le scrive da New York.

D.: Una donna tenace, forte e determinata che rifiuta il compromesso di un secondo matrimonio per allevare quel figlio, da sola, anche a costo di fare dei grandi sacrifici, industriandosi, ad affittare camere, d’estate, per non chiedere aiuto agli altri.

R.: Che si piega alla dolorosa circostanza di lasciar partire il figlio quattordicenne per l’America, nella certezza che Alfonsino sarebbe ritornato, per riprendere il cammino per la realizzazione del loro sogno: una pensione-ristorante, che portasse il cognome Iaccarino. Allo stesso modo la moglie, la quale, oltre a donargli undici figli, lo collabora, onnipresente e discreta, nella conduzione dell’attività, prima da sola e, poi, mano a mano che crescono, con i figli: le femmine addette alle camere, gli uomini alla gestione generale, agli approvvigionamenti, alla cucina, alla cantina e alla sala da pranzo.

D.: Anche le figlie non sono da meno.

R.: Se Olga e Maria si dedicano alle loro famiglie, Laura e Anna appaiono le più tenaci nel voler continuare l’attività paterna, seguendo proprie strade. Io ho avuto il privilegio di conoscere, in piena attività, la signora Laura Iaccarino, maritata con Angelo Foddai, gestori dell’Albergo Europa Palace di Sorrento. Da studente-lavoratore, feci, per tre estati, da ragazzo, il boy di portineria, in quel grande albergo, sotto la guida di un indimenticabile concierge, Carmine Buonagura. Ero colpito dall’energia e dalla determinazione della “padrona”, sempre in movimento, tra i piani, i saloni, la lavanderia, le cucine. Una donna indimenticabile. Senza queste donne, madri e mogli di albergatori, collaboratrici preziose nelle aziende, la nostra storia turistica sarebbe stata diversa.

D.: Dal nonno famoso al nipote ancora più famoso. Anche accanto a lui, un figura femminile fondamentale.

R.: Livia Adario, la sua ragazza, la sua fidanzata, sua moglie, la sua principale collaboratrice, la madre dei suoi figli. Un pilastro! Anzi, il pilastro, come la definisce don Alfonso. Alfonso e Livia sono coessenziali, indisgiungibili. Tutto quello che hanno fatto e conquistato, lo hanno fatto e conquistato insieme, sfidando i luoghi comuni, avendo il coraggio di scegliere insieme, di studiare insieme, di viaggiare insieme, osservando e apprendendo, insieme, dalle altrui esperienze, conservando la tradizione, senza rinunziare all’innovazione, mantenendo i piedi a terra, senza dimenticare di sognare, come due visionari, come due realizzatori, capaci di discutere, di lottare, di confrontarsi e, talvolta, anche di sbagliare, sempre insieme.

D.: Come nelle monarchie, anche nella loro dinastia la successione è assicurata?

R.: Ernesto ha ereditato le virtù creative del padre, mettendole subito a frutto in cucina. Mario quelle organizzative della madre, praticandole quotidianamente in sala. La quarta generazione degli Iaccarino appare già pronta sulla rampa di lancio, ben sapendo che la coppia regina dell’alta cucina italiana, avrà ancora molto da creare e da organizzare. La loro favola, umana, professionale e sentimentale, continua. Livia rimane la sacra custode della super cantina del Don Alfonso 1890. Un regno nel regno.

Glielo auguriamo, veramente, di cuore!


Scarica la notizia in pdf