09/02/2018
Pubblicato da Politica in Penisola - venerdì 9 febbraio 2018
Che il ventre profondo del nostro paese ribollisse, da circa un quindicennio, di ansia e di rabbia sociale, una rabbia oscura, quasi ancestrale, rivolta agli inizi indistintamente verso tutto e tutti, erga omnes, non era sfuggita a qualche sociologo più attento.
Che questa condizione patologica del tessuto sociale, economicamente e culturalmente più debole della società italiana, si fosse diffusa, a macchia d’olio, al Nord, al Centro e al Sud, allignando nelle periferie urbane delle grandi città, come nei piccoli centri di provincia, non era sfuggita a qualche amministratore locale più avveduto.
Che gli effetti perversi, derivanti dall’introduzione della moneta unica europea, dalla globalizzazione non governata, dalla crisi economico-finanziaria del 2007/2008, dalla conseguente stagnazione economica e dalla miopia di un sistema bancario, arroccato in difesa sulle proprie rendite di posizione parassitarie, peraltro mal gestite, avessero prodotto la desertificazione industriale, devastante nel Mezzogiorno e nelle Isole, con la chiusura di interi comparti industriali, un continuo calo demografico, la crisi del commercio e dell’artigianato e, cosa più drammatica, un livello allarmante di disoccupazione, specie giovanile, non era sfuggito a qualche economista più attrezzato.
Tutti questi inequivocabili segnali, sintomi allarmanti di un disagio collettivo e di una involuzione della società italiana, indotti principalmente dalla contrazione del potere di acquisto dei redditi più bassi del ceto popolare e del ceto medio, sono sfuggiti, tuttavia, ai governi della cosiddetta seconda repubblica, sia di centro destra che di centro sinistra, e ai leader dei partiti politici. Basti un solo esempio: un organico piano di politica industriale, pronto tecnicamente, fin dal 2015, che anticipava e cercava di governare, mitigandolo, l’impatto della globalizzazione, non divenne mai, a causa di gelosie tra ministri, argomento di discussione e di approvazione in Consiglio dei Ministri.
La narrazione, non solo berlusconiana, alimentata da messaggi televisivi rassicuranti e anestetizzanti, di un paese in benessere, pieno di ristoranti affollati e di alberghi con prenotazioni in lista di attesa, ha impedito, dall’inizio del 2000 ad oggi, alla classe politica dirigente, nel suo insieme, di prendere coscienza che quel malessere si stava trasformando in una malattia, con laceranti ricadute sul tessuto sociale, non di rado esplose in efferati fatti di sangue o in scandali pubblici, legati alla corruzione endemica.
La realtà del paese era diversa: le mense della carità, sempre più gremite, gli allarmi delle associazioni di volontariato e le grida di dolore di intere famiglie distrutte dalla perdita del lavoro, dalla diffusione delle droghe e dalla piaga devastante dell’usura e del gioco d’azzardo. Quest’ultimo diventato, per la criminale complicità dei governi, il rifugio illusorio dei disperati, dei meno abbienti e dei pensionati al limite della sopravvivenza economica.
Anziani, minori, malati di gioco patologico, attaccati alle slot machine e alle video lottery, diffuse in ogni angolo del paese, dalle grandi sale, eleganti e accattivanti, delle città, ai nascosti retrobottega dei più piccoli bar di paese. Per aver prodotto questo disastro, umano e civile, i ministri dell’economia e delle finanze meriterebbero di essere denunziati, incriminati e processati davanti ai Tribunali della Repubblica.
Alla rabbia, negli ultimi anni, si è sommato il rancore, con destinatari, questa volta, precisi e ben identificati. Il CENSIS, nel 51esimo rapporto su “La società italiana al 2017”, analizzando gli scenari non positivi del paese (il rimpicciolimento demografico, la povertà del capitale umano e la polarizzazione dell’occupazione che penalizza gli operai, gli artigiani e gli impiegati, una parte di quello che una volta costituiva il ceto medio) non esita a battezzare il fenomeno, come “L’Italia del rancore” e ne spiega le ragioni.
Persistono, secondo il rapporto, trascinamenti inerziali da maneggiare con cura, perché il blocco della mobilità sociale crea rancore. L’87,3% degli italiani appartenenti al ceto popolare pensa che sia difficile salire nella scala sociale, come l’83,5% del ceto medio e anche il 71,4% del ceto benestante. Pensano che, al contrario, sia facile scivolare in basso nella scala sociale il 71,5% del ceto popolare, il 65,4% del ceto medio, il 62,1% dei più abbienti. Insomma, il timore del declassamento è il nuovo fantasma sociale. Ed è una componente costitutiva della psicologia dei millennials: l’87,3% di loro pensa che sia molto difficile l’ascesa sociale e il 69,3% che al contrario sia molto facile il capitombolo in basso.
Questo processo di destrutturazione dei tradizionali gruppi sociali, con il ceto popolare e il ceto medio schiacciati verso il basso, confinati nell’area della povertà, vittime della crisi economica, della rivoluzione tecnologica e dei processi di globalizzazione, alimenta l’astio contro la classe politica e le istituzioni, nazionali ed europee, mette in dubbio lo stesso sentimento di appartenenza alla comunità nazionale (il sentirsi, cioè, di ciascun cittadino, protagonista di un destino comune!) e rende questi ceti facile preda degli slogan populisti e sovranisti. L’indice della sfiducia, quindi, non investe soltanto i mercati finanziari e le Borsa, ma anche la politica. Il CENSIS precisa: l’84% degli italiani non ha fiducia nei partiti politici, il 78% nel Governo, il 76% nel Parlamento, il 70% nelle istituzioni locali, Regioni e Comuni. Il 60% è insoddisfatto di come funziona la democrazia in Italia, il 64% è convinto che la voce del cittadino non conti nulla, il 75% giudica negativamente la fornitura dei servizi pubblici. L’immigrazione evoca sentimenti negativi nel 59% degli italiani, con valori più alti quando si scende nella scala sociale: il 72% tra le casalinghe, il 71% tra i disoccupati, il 63% tra gli operai.
Bastano le recenti stime dell’OCSE e dell’Unione Europea di un aumento del PIL, nel 2018, dell’1,5 % (nel Mezzogiorno 1,3%) a far superare il clima diffuso di rabbia e di rancore? Certamente no, se le previsioni più ponderate ipotizzano un ritorno ai livelli del 2007, nel 2022 al Nord e nel 2025 al Sud, con un aumento inarrestabile del divario tra le due Italie, tra l’Italia e gli altri paesi dell’Unione Europea. Ci sarà un governo, stabile e forte, dopo il 4 marzo, in grado di invertire la rotta ed evitare che il Mezzogiorno perda, entro il 2060, dai 5 ai 6 milioni di persone in età produttiva, prevalentemente giovani, diventando l’area più “vecchia” del paese?
È lecito, allo stato, dubitarne, perché alla rabbia e al rancore, si stanno sommando, in un grumo deflagrante, pulsioni xenofobe e razziste, che vorrebbero imputare la colpa di tutti i mali italiani all’immigrazione non controllata. La “questione immigrazione” è molto complessa e sta diventando, quindi, un ulteriore elemento di divisione, di frattura e di semplificazione delle responsabilità. Merita di essere approfondita. La classe politica e i suoi leader non sembrano voler ascoltare la lezione della Storia, come la tragica metafora di Macerata dimostra. Ignorano o fingono di ignorare che, dall’odio sociale alla deriva autoritaria, il passo è breve.