18/02/2018
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. Domenica 18 febbraio 2018Sulla politica industriale, alla miopia dei responsabili politici del passato si sono sostituite l’ignoranza e la malafede di quelli attuali?
Una prova inoppugnabile delle carenze, della improvvisazione e della inattuabilità, rilevate dai più acuti analisti economici, sia nazionali che esteri, nei programmi elettorali dei partiti, dei movimenti e delle coalizioni, partecipanti alle elezioni politiche del 4 marzo, riguarda il ruolo centrale che dovrebbe rivestire, nella ripresa dello sviluppo economico e nel rilancio dell’occupazione, l’impresa: le grandi imprese nonché le medie, le piccole e le micro imprese, localizzate queste ultime sull’intero territorio nazionale.
Il nostro tessuto imprenditoriale risulta strutturato in poche imprese internazionali e in moltissime imprese di medie e piccole dimensioni, quasi il 95% del totale. Senza dimenticare l’impresa sociale, sempre più rilevante.
Una filosofia (o teoria) della crescita economica, che non punti sulla centralità dell’impresa, rappresenta una contraddizione in termini, un’autentica dabbenaggine. L’impresa, quindi, per la classe politica italiana, è una perfetta misconosciuta. Joseph Stiglitz, premio Nobel per l’economia 2001, per non scomodare altri autorevoli economisti dello sviluppo, come Joseph Schumpeter o Paul Samuelson, ne sarebbe esterrefatto!
Frutto di ignoranza o di malafede? Difficile scegliere, anche perché i cosiddetti leader politici e i loro consiglieri, nella composizione delle liste hanno evitato, accuratamente, di candidare esponenti di rilievo dell’industria e del lavoro, tranne uno o due casi, che non fanno numero, preoccupati di mettere in salvo la loro “corte dei miracoli”: portaborse, accoliti, amici degli amici, giornalisti di area, telegenici e di bella presenza, amanti ecc… Lo sconfortante risultato sarà un Parlamento, ancorché destinato a defungere presto, privo di personalità a conoscenza dei problemi elementari di un’economia moderna, in grado di presiedere le commissioni parlamentari di competenza e di legiferare in materia di economia, di industria, di lavoro, di competitività e di trasformazione digitale del nostro tessuto imprenditoriale.
In pratica, 15/16 milioni di imprenditori e di lavoratori dipendenti, senza contare le loro famiglie, resteranno privi di una rappresentanza parlamentare adeguata ai tempi di una globalizzazione che ha avvantaggiato i paesi post moderni ed emergenti ed ha penalizzato maggiormente paesi, come l’Italia, il cui tessuto imprenditoriale, prevalentemente medio-piccolo, fatica ad internazionalizzarsi, ad esportare e ad aprirsi ai nuovi scenari, inaccessibili, al limite dell’utopia, senza una pianificazione pluriennale, che punti sulle piattaforme digitali delle grandi catene di forniture.
Alla miopia dei responsabili politici del passato si sono sostituite l’ignoranza e la malafede di quelli attuali?
La colpa è soltanto dei politici in carriera o anche del nostro asfittico capitalismo familiare, che non si è evoluto, sempre con pochissime eccezioni, in una visione più moderna e globale, di una borghesia imprenditoriale, raffinata e propositiva, che ha dismesso il suo antico ruolo politico-sociale, fatto di inventività e di creatività, nonché di cultura, di intelligenza e di etica della responsabilità, la “Verantwortungsethik”, tanto per tornare a Max Weber, o delle grandi rappresentanze degli industriali, a partire da Confindustria, che sembra aver smarrito del tutto il senso della propria mission istituzionale, silente, intimidita e inascoltata, all’angolo, passata dalle invasioni di campo nell’agone politico di ieri all’assordante silenzio di oggi? Neppure l’assise confindustriale di Verona del 16 febbraio può far cambiare giudizio, tantomeno le proposte formulate, più un auspicio che un progetto realizzabile (impiegare 250 miliardi in 5 anni per creare 1,8 milioni di posti di lavoro e far calare il debito/pil di 20 punti).
Lasciamo ai politici illudersi (e, meglio, illudere) che, con la lieve ripresa degli investimenti e l’aumento del PIL all’1’5%, il peggio sia passato e che la crisi spaventosa di questo ultimo decennio sia alle nostre spalle, quando permangono i nostri limiti strutturali e infrastrutturali di sempre.
In particolare: la debolezza del nostro mercato di capitali, mentre continua la “svendita” dei nostri residui asset strategici; un sistema bancario e del credito incapace; la difficoltà delle PMI ad internazionalizzarsi; l’insufficiente tasso di digitalizzazione, nel privato e, ancor più, nel pubblico; una burocrazia, centrale e periferica, parassitaria, predatoria e ostativa, che, invece di favorire, ostacola la vita quotidiana delle aziende; un sistema fiscale assurdo, contraddittorio e famelico, che succhia il sangue alle imprese, oltre che ai cittadini, senza restituire servizi a livello di una decantata “potenza industriale”; un sistema formativo inidoneo a fornire, al mercato, risorse umane, quantitativamente e qualitativamente preparate, sul piano tecnico, per contribuire ad aggiornare i sistemi produttivi e ad arricchire il capitale umano delle imprese innovative, motore del nuovo sviluppo. E si potrebbe continuare all’ infinito.
Al posto dell’impresa, nei programmi elettorali, rimane lo Stato, uno Stato indebitato, fino al collasso, male organizzato e peggio gestito, al centro e nelle articolazioni periferiche, nella fuorviante illusione della classe politica che i posti di lavoro possano essere “distribuiti” soltanto dalla mano pubblica e la disoccupazione, specie giovanile, venga risolta allargando i cordoni della borsa della spesa pubblica.
Nel contempo, viene lanciata l’esilarante proposta di creare, nel futuro governo, un ministro per la Spending Review (scusi, con o senza portafoglio?), magari con un apposito e robusto apparato burocratico, incaricato di esaminare “le spese sostenute dallo Stato per il funzionamento dei suoi uffici e per la fornitura di servizi ai cittadini, allo scopo di ridurre gli sprechi e di apportare miglioramenti al bilancio.” Come se non fossero bastati i commissari (la vicenda Cottarelli insegna!) a redigere la lunga lista degli sprechi, rimasta sulla carta, un lista che offende e disonora la coscienza civile del paese.
Quante altre “barzellette” il corpo elettorale sarà costretto ad ascoltare, nelle prossime due settimane, da chi ha già fallito nell’attività di governo e dai nuovi aspiranti a governare, i moralisti dell’onestà, i piccoli Robespierre del web, che scoprono, ex post, tra i propri parlamentari e i nuovi candidati, reperiti a casaccio, dei furbastri da “gioco delle tre carte”?
Ci si aspettava, sulla scena, un piano ventennale di politica industriale e dell’innovazione, nonché un coraggioso progetto di democrazia economica, con il coinvolgimento dei lavoratori nella gestione dell’impresa, mentre ci troviamo di fronte ad una campagna elettorale, che somiglia sempre più ad uno spettacolo del Bagaglino (con tutto rispetto) o ad una performance d’avanspettacolo di Ettore Petrolini. Bene, bravi, bis!