27/02/2018
Pubblicato da Politica in Penisola martedì 27 febbraio 2018
Le allucinazioni politico-elettorali dei cosiddetti leader prescindono dal grande “buco nero” del debito pubblico italiano: 2300 miliardi di euro, pagati mediamente il 4%, fanno 92 miliardi per anno, anticamera del default
In questi ultimi giorni di campagna elettorale non sembra manifestarsi il pur minimo ravvedimento operoso da parte dei cosiddetti leader politici, dopo tre settimane, caratterizzate da un’assenza di confronti diretti tra i competitori, su temi vitali, come il debito pubblico, e da un tripudio di insulti, di insinuazioni, di volgari provocazioni, di gaffe istituzionali, di incitazioni all’odio razziale, di conati xenofobici, di cortei dimostrativi, di scontri tra estremismi, neo fascisti e neo antifascisti, in un crescendo di promesse folli, che prescindono completamente dal grande “buco nero” italiano: un debito pubblico di 2300 miliardi di euro che, pagati mediamente il 4%, fanno 92 miliardi per anno. Promesse che se perseguite provocherebbero un cataclisma finanziario, fino al default.
Al contrario, cresce il delirio, non solo verbale, del ceto politico che, di ora in ora, somiglia sempre più ad una sorta di “delirium tremens”, patologia di cui morì quarantenne, lo scrittore dell’orrore, Edgardo Allan Poe. Lo stato confusionale, il DTS, insorge nei soggetti affetti da alcolismo cronico e viene provocato dall’astinenza, dopo tre giorni, da alcool. Le persone in delirio sono affette da allucinazioni. Il “delirium tremens” della politica italiana, in atto, non è stato certamente provocato da astinenza da alcool, piuttosto da un’astinenza da verità, da trasparenza e da correttezza nei confronti degli elettori. Si tratta di un autentico inganno, frutto di malafede o, nel migliore dei casi, di allucinazioni politico-elettorali. Cioè di quegli stati morbosi in cui ciò che è pura immaginazione viene percepito come realtà e, come tale, viene rappresentato agli altri.
L’allucinazione politico-elettorale di Silvio Berlusconi riguarda principalmente il fisco, la grande (e, per molti aspetti, legittima) ossessione degli imprenditori, a partire dal rilancio della flat tax, al 22/23%, con la motivazione che avrebbe già prodotto miracoli ad Hong Kong e in Irlanda. “Volevo introdurre la flat tax anni fa con il nostro Antonio Martino. Avevo parlato con alcuni economisti e da lì è venuta fuori un’equazione che si chiama ‘equazione della crescita e del benessere’ che dice: meno tasse su famiglie, lavoro e imprese producono più consumi delle famiglie, più investimenti delle imprese, più posti di lavoro e anche più soldi nelle casse dello stato, con cui aiutare i cittadini rimasti indietro”. In più: nessun aumento dell’IVA, né nel 2018 né nel 2019; le pensioni minime a mille euro; un contributo fisso alle madri che non hanno un lavoro ma lavorano sempre, sabati e domeniche comprese, niente tassa sulla casa, niente bollo auto, abolizione dell’Irap, definita ‘imposta rapina che le imprese pagano anche se sono in perdita’, niente imposte su donazioni in vita e di successione. Si tratta del consueto programma fiscale di Berlusconi, in alcune parti persino condivisibile (chi non vorrebbe aumentare le pensioni minime a mille euro?), ma senza un calcolo sui costi e sui tempi di realizzazione, senza coperture certe e senza tener conto del “buco nero” del debito pubblico, sorvolando peraltro sulla complessità della situazione italiana che non può essere paragonata, senza sfiorare il ridicolo, a quella di Hong Kong o dell’Irlanda.
L’allucinazione politico-elettorale di Luigi Di Maio riguarda principalmente il galateo istituzionale e la mancanza (o l’ignoranza?) delle regole elementari, dettate dalla Costituzione e dalla prassi, con l’irrituale richiesta di essere ricevuto, in piena campagna elettorale, al Quirinale (fortunatamente dal solo Segretario Generale!), prima del risultato elettorale, per preannunciare l’invio a Mattarella della lista dei ministri del primo (sic!) governo Di Maio, centellinati due o tre al giorno, come se fossero estrazioni del lotto sulla ruota di Afragola. “Stamattina sono stato al Quirinale, su mia richiesta, per cortesia istituzionale, perché, come tutti sapete, è il presidente della Repubblica che ha la prerogativa di nominare i ministri, su proposta del presidente del Consiglio incaricato. Per questa ragione ho ritenuto doveroso informare il Quirinale che noi la prossima settimana faremo una proposta di squadra di governo al presidente delle Repubblica e saranno le persone giuste al posto giusto”. Se Salvini si è spinto a giurare, invocando santi e madonne, come futuro premier e guida illuminata di 60 milioni di italiani, Di Maio si è portato un poco più avanti: ha già vinto le elezioni, altro che il 30%; ha già ricevuto l’incarico di formare il nuovo governo; ha già sciolto la riserva e deve solo giurare come presidente del consiglio nelle mani del Capo dello Stato, dal quale si vorrebbe recare per preannunciare la lista dei ministri del suo futuro quanto incerto gabinetto. Arroganza caratteriale, ignoranza delle regole costituzionali o, meglio, allucinazione politico-elettorale per distrarre l’opinione pubblica dal giallo dei rimborsi e delle candidature sbagliate?
L’allucinazione politico-elettorale di Matteo Renzi riguarda principalmente la sua sindrome del perdente, che lo affligge, in particolare, dalla sconfitta al referendum costituzionale del dicembre 2016. Non a caso è passato, con la sua solita sicumera, dalla richiesta del più rapido scioglimento delle Camere, immaginando una vittoria del PD e un suo ritorno a Palazzo Chigi, a più miti consigli, dopo che i sondaggi gli hanno notificato una progressiva caduta del consenso ai democratici, precipitato al di sotto del 20%, sfondando in basso la linea Bersani. Renzi, temendo, alla vigilia del voto, l’identificazione anche di una seconda sconfitta con la sua persona, si appella, in extremis, all’intelligenza dell’elettorato: “Sono convinto che gli italiani sapranno scegliere sulla base dei fatti non lasciandosi suggestionare da promesse mirabolanti. In questi anni di governo del Partito Democratico siamo riusciti a portare l’Italia fuori dalla più grave crisi dai tempi del dopoguerra. C’è ancora tanto da fare, ma non possiamo vanificare gli sforzi fatti fino a oggi. Le proposte della destra e del M5S sono da paese dei balocchi. Il 5 marzo, il Pd sia al primo posto. È possibile? Sì, assolutamente, anche se è più facile in un ramo del Parlamento che in un altro”. La certezza iniziale di conseguire almeno il risultato del più numeroso gruppo parlamentare, stretto intorno a lui, almeno alla Camera dei Deputati, si è trasformata, nelle ultime ore, in un semplice auspicio. Anche quest’ultimo da annoverare tra le allucinazioni politico-elettorali del 4 marzo 2018.
Le altre allucinazioni politico-elettorali dei cosiddetti leader minori (le Meloni, i Grasso, le Boldrini, le Bonino, le Lorenzin e via calando), pur sfiorando punte di rara comicità, appaiono giustificate dalla spasmodica ricerca del risultato a due cifre o ad una cifra, purché superiore al 3%. Più o meno, come quando le squadre di calcio, ultime in classifica, lottano spasmodicamente per evitare la retrocessione in serie B e si guarda ad esse, in caso di interventi fallosi in campo, con un occhio tra il comprensivo e il compassionevole.
“Dobbiamo prepararci allo scenario peggiore: un governo non operativo in Italia e un’instabilità che potrebbero provocare una forte reazione dei mercati nella seconda metà di marzo». Le legittime, quanto realistiche e quasi banali considerazioni del presidente della Commissione Ue, Jean Claude Juncker, a dieci giorni dal voto, infine, hanno cercato di interrompere il clima delle allucinazioni politico-elettorali. Invano. Sono state sommerse da proteste e da insulti. Quos vult Iupiter perdere, dementat prius! A quelli che vuole rovinare, Giove toglie prima la ragione (Euripide)