09/03/2018

Pubblicato da Politica in Penisola il 9 marzo 2018

Di Maio e Salvini, al di là del proclami quotidiani di aspirazione a governare, puntano, nei loro retro-pensieri, a nuove elezioni e sulla XIX legislatura repubblicana

Due interrogativi. Senza scomodare Montesquieu, Rousseau e Condorcet sulla questione della compatibilità o della incompatibilità tra democrazia e rappresentanza, quale risposta si può dare, nell’ambito del rapporto tra matematica e politica, tra dati numerici (e statistici) e democrazia rappresentativa, in particolare sull’incidenza della prima (matematica) sulla seconda (politica)? Esiste un sistema elettorale perfetto, in grado di garantire una totale rappresentatività del popolo sovrano, che non produca paradossi? La prima risposta è certamente positiva (la matematica, insieme con la statistica, incide profondamente sulle scelte politiche, determinando spesso dei radicali mutamenti di indirizzo e costringendo leader e partiti ad adattarsi, finanche a contraddirsi, pur di mantenere o conquistare il potere). La seconda risulta negativa, secondo il teorema dell’impossibilità di Arrow.

IL TEOREMA DI ARROW

teoremaNel saggio del 1951, “Scelte sociali e valori individuali (Social Choice and Individual Values), l’economista statunitense Ken Arrow, vincitore del Premio Nobel per l’Economia” 1972, teorizzò l’impossibilità di determinare un sistema di votazione che preservasse le scelte sociali, partendo dal fallito tentativo di elaborare una qualsiasi procedura di decisione collettiva in grado di soddisfare alcuni requisiti ragionevoli, con l’obiettivo di garantire una scelta non arbitraria e portando, come esempio, il sistema di voto maggioritario, secondo il celebre paradosso di Condorcet. Con una conclusione: non esiste, e non può essere elaborato, un sistema elettorale che non produca paradossi. E di paradossi, taluni censurati anche dalla corte costituzionale, ne avevano prodotto già il “Mattarellum”, il “Porcellum” e l’“Italicum”, non quanti, tuttavia, ne sono stato generati dal “Rosatellum bis”.

I PARADOSSI DEL ROSATELLUM BIS

rosatellumIl primo paradosso. Quasi sempre gli ispiratori (e i manovratori) di una nuova legge elettorale, presenti nelle maggioranze uscenti, con il sostegno di opposizioni, affini negli interessi politici e di potere da tutelare, tendono a strutturare il nuovo sistema di voto a propria esclusiva convenienza, prefigurando scenari positivi, puntualmente smentiti dalle urne, che, al contrario, non di rado, favoriscono proprio quegli avversari politici che essi intendevano svantaggiare. La tirannia della matematica spazza sempre via le illusioni e i calcoli sbagliati della politica!

Il “Rosatellum bis”, votato, a colpi di fiducia (ben cinque al Senato), per timore dei franchi tiratori, da una larghissima maggioranza, composta da Partito Democratico, Forza Italia, Lega Nord, Alternativa Popolare di Alfano ed Ala di Denis Verdini, è stato approvato al Senato, in via definitiva, diventando legge dello Stato, come un abito cucito su misura, per privilegiare le coalizioni, di centro destra e di centro sinistra e per danneggiare elettoralmente il Movimento Cinque Stelle che si sarebbe presentato in solitaria. Paradossalmente, il movimento che più si è opposto alla nuova legge elettorale, ha vinto, da solo, le elezioni, mentre i due partiti che più l’avevano sostenuta, il PD (anche a costo di una scissione) e Forza Italia, ne sono usciti fortemente ridimensionati. Come completamente rasa al suolo è risultata anche l’inconfessabile subordinata, coltivata nelle segrete stanze e sostenuta dal circoli del potere finanziario, di una maggioranza delle cosiddette larghe intese imperniata sull’asse PD-Forza Italia e qualche cespuglio.

LA FORZA DEI NUMERI E’ INEQUIVOCABILE!

Nessuna delle due coalizioni ha conseguito la maggioranza di Camera e Senato, con un centro destra prevalente (263 seggi su 316 alla Camera; 138 su 161 al Senato) e un centro sinistra ridotto ai minimi termini (118 seggi alla Camera; 60 al Senato). Il M5S, pur ottenendo da solo un successo straordinario, non supera alla Camera 223 seggi e 112 al Senato. Il tripolarismo asimmetrico, quindi, è stato confermato, ma la figura geometrica che lo rappresenta risulta un triangolo scaleno, con lati tutti diversi, in ragione della percentuale di voti raggiunta dalle due coalizioni e dal movimento.

Ragionando con una logica meramente numerica, non politica né programmatica, appare evidente che l’unica maggioranza possibile, senza il M5S, dovrebbe comprendere tutti gli altri: da Fratelli d’Italia a Liberi e Uguali. Tutte le altre maggioranze, sempre numeriche, più o meno deboli, dovrebbero necessariamente far perno sul M5S, insieme con il centrodestra intero, soltanto con la Lega o con la Lega e Fratelli d’Italia. Oppure, guardando all’altro fronte, il M5S con i resti del PD e i compagni del centro sinistra, arrivando ad includere o meno anche la pattuglia di Liberi e Uguali.

Restringendo l’ambito a maggioranze, sempre numeriche, le opzioni principali sarebbero, quindi, sostanzialmente tre: il M5S con il PD, il PD con il centro destra, il centro destra con il M5S.

Il secondo paradosso. Ragionando, invece, realisticamente, con una logica politico-programmatica, si comprende come nessuna di queste maggioranze sia fattibile, in quanto inaccettabile sia per gli sconfitti reali che per i vincitori apparenti:
– Il PD, nei casi teorizzati, infatti, dovrebbe digerire due proposte-bandiera degli ipotizzati alleati: o il reddito di cittadinanza dei cinque stelle o la “flat tax” del centro destra. In entrambi i casi, per i democratici, anche se derenzizzati, come chiede ad alta voce e provocatoriamente Di Maio, una delle due alleanze provocherebbe il definitivo suicidio politico dei democratici, con la prevedibile condanna alla completa irrilevanza o, addirittura, alla scomparsa dalla scena politica nazionale, come avvenuto per altri partiti della sinistra europea. Senza sottovalutare, con un Renzi fuori dal Nazareno, l’ipotesi di una scissione anche del gruppo parlamentare del PD;
– allo stesso modo, un’alleanza tra il M5S e il centro destra dovrebbe passare sul cadavere di Silvio Berlusconi e sulla spaccatura di Forza Italia (non mancano tra i forzisti i seguaci nascosti di Matteo Salvini, pronti a tradire, come in una tragedia di Shakespeare, il vecchio sovrano di Arcore per l’astro nascente del sovranismo e del reazionarismo di destra). Appare francamente difficile, comunque, immaginare, anche nel peggiore degli incubi, un Berlusconi regista o sostenitore di un duo governativo Di Maio-Salvini (uno a Palazzo Chigi, l’altro alla Farnesina o al Viminale), nonostante la sua ben nota filosofia politica di farsi “concavo e convesso”, pur di mantenere il potere, salvaguardando il futuro delle aziende di famiglia e la presenza dominante sui media nazionali, da sempre nel mirino dei cinque stelle.

Il “Rosatellum bis”, quindi, ha prodotto un’assoluta ingovernabilità, anche se si volessero adottare e “adattare” al presente le formule politiche del passato, provvisorie, tipo governi di transizione (verso cosa?), governi balneari (per chi?) o governi della non sfiducia (con chi?).

Il terzo paradosso. In questa settimana post elettorale si sta assistendo ad una progressiva metamorfosi mediatica dei due candidati premier, i quali mentre rivendicano dal Capo dello Stato un incarico “pieno” (Di Maio: il M5S è il primo partito con il 32,7 % dei consensiSalvini: La Lega e il centro destra hanno conquistato il maggior numero di seggi parlamentari, più vicini ad una maggioranza autosufficiente) tendono a rassicurare i mercati finanziari, finora ancora alla finestra ad osservare e ad attenuare l’ansia da incertezza diffusa nella collettività nazionale. Di Maio va anche a dormire con il vestitino blu notte e la cravatta intonata da premier in pectore, non smette mai il sorriso da steward, redige diligentemente i “dieci punti” programmatici, come fossero i nuovi comandamenti (Mosè nella tomba già rumoreggia!), che “strizzeranno l’occhio” a Mattarella e ai capetti del PD, pronti a giubilare Renzi, fa trapelare dai “casalino” di turno la disponibilità a ritoccare qualcosa, ma poco poco, della compagine governativa (o del consiglio di facoltà?) ufficializzata, con trombe e tamburi, prima delle elezioni (sarebbe grottesco, il paradosso dei paradossi, ritrovare, come sottosegretari del primo governo Di Maio, ex ministri del governo Gentiloni e governatori democratici in carica).

di-maio-di-battistaMentre il gemello, Alessandro Di Battista, è impegnato, con il residuo di forze rimastegli, dopo decine di comizi, prima di partire per le meritate vacanze intorno al mondo e scrivere il suo attesissimo secondo capolavoro letterario, a cannoneggiare il bunker di Renzi al grido “quanto rapidamente ascese, tanto celermente discese: a 43 anni ha concluso la sua fulminante carriera politica. Altro che Napoleone!”. Né si cura il Dibba di nobilitare la tragedia renziana con il mito di Icaro. Dal canto suo Salvini ha smesso le felpe da pseudo-rivoluzionario di periferia e ha ordinato al suo sarto di fiducia (lombardo o siciliano?) la grisaglia per salire al Quirinale, ha attenuato i toni quarantotteschi, che spaventano i moderati di Forza Italia e non contraddice più Berlusconi, il quale rivendica, con toni accorati, il suo ruolo centrale e insostituibile nel centro destra. Infine, si fa fotografare con il suo senatore neoeletto, nero, non più “negro”, per smentire l’accusa di razzismo e xenofobia.

carro-vincitoriPiù che paradosso questo sembra un nuovo capitolo dell’eterna commedia dell’arte all’italiana, come il classico arrembaggio italico a salire sul carro del vincitore, l’effetto carrozzone (bandwagon effect).

Il quarto paradosso. Il “jump on the bandwagon”, ancorché espressione dispregiativa, cioè l’assalto al carrozzone dei vincitori, da parte di chi parteggiava per un gruppo avverso, non rappresenta una sorpresa, ma costituisce una costante delle vicende politiche italiane, pre e post unitarie, con radici nel Medioevo e nell’età moderna, quando il dominio delle potenze straniere (Francia, Spagna e Austria) si alternava sull’espressione geografica e costringeva a rapidi cambiamenti di fronte, di gabbana e di viceré. Secondo l’eterno motto del Guicciardini: o Franza o Spagna, purché se magna. magnaRimanendo alla storia contemporanea hanno dato testimonianza di questa “tara ereditaria”: i gattopardi siciliani, i latifondisti borbonici piemontesizzati, i socialisti divenuti interventisti, i liberali convertiti a Mussolini e alla dittatura fascista, i fascisti trasformati in una notte in combattenti per la libertà, in democristiani e, persino, in militanti della sinistra comunista e i reduci dei partiti della prima repubblica rilanciati da Berlusconi nel 1994. La Confindustria, i vertici delle industrie residue e delle banche, gli ex-direttori dei maggiori quotidiani nazionali, i corridoi della RAI, da sempre insostituibile termometro di questa patologia nazionale, si presentano compatti nella riscoperta e nella positiva riconsiderazione dello statista di Pomigliano D'Arco e del suo movimento. Interpretato, quest’ultimo, proditoriamente e con sprezzo del ridicolo, come il “nuovo partito della sinistra italiana” (Eugenio Scalfari) o, nell’alternativa contraria, come “la nuova democrazia cristiana” (Paolo Mieli), con la benedizione di Vincenzo Scotti e con le suggestioni para democristiane di Beppe Grillo.

La morte delle ideologie, del classismo operaio e dell’interclassismo produce queste aberrazioni storico-politiche, altro che semplici paradossi.

mattarellaIl quinto paradosso. I vincitori apparenti e gli sconfitti reali di questa disgraziata competizione elettorale guardano tutti al Colle, nella speranza che sia il Capo dello Stato a togliere le castagne dal fuoco ai partiti e ai movimenti, estraendo dal capello quirinalizio il classico coniglio risolutore. Mattarella non ha le capacità dei prestigiatori e neanche, nonostante abiti un antico palazzo di Papi, virtù miracolistiche per evitare il caos. Per chi ha collaborato con lui, su incarico del ministro dell’Interno pro-tempore, nell’applicazione della legge elettorale, che porta il suo nome, e ne ha apprezzato le qualità di intelligenza politica, di prudenza caratteriale e di equilibrio istituzionale, diventa agevole ipotizzare che il Presidente del Repubblica:

1) si atterrà rigorosamente ai suoi compiti istituzionali di arbitro, sebbene attivo e discreto sollecitatore, nel rispetto della Costituzione e della prassi costituzionale, senza gli sconfinamenti e le forzature del predecessore, che portarono alla sciagurata nascita del Governo Monti;
2) non concederà subito a nessuno dei contendenti un incarico pieno, al massimo un incarico esplorativo a chi risulterà dei due, dalle consultazioni, il più vicino ad una maggioranza autosufficiente, in attesa che le decisioni, politiche e programmatiche, dei partiti e del movimento, vengano formalizzare e rese di pubblico dominio. Dalla composizione finale dei gruppi, in particolare del gruppo misto, e dalle elezioni dei presidenti delle Camere, in ogni caso, si prefigureranno gli sviluppi successivi;
urna3) in caso di fallimento, nonostante i “responsabili di turno” e “le file di Brunetta”, affiderà un incarico pieno ad una personalità delle istituzioni, capace di formare un governo di alto profilo, in grado di presentarsi alle Camere per la fiducia con un programma in due punti (la riforma elettorale e una manovra correttiva), lasciando ai gruppi parlamentari tutta la responsabilità politica dell’approvazione o della bocciatura dell’esecutivo che, comunque, gestirebbe le nuove elezioni a settembre-ottobre. Il ritorno alle urne, al posto di un governo debole, pasticciato e politicamente contraddittorio, destinato a soccombere entro un anno, non rappresenta “un fantasma”, ma il corretto esercizio della democrazia, perché anche il corpo elettorale dovrà assumersi le proprie responsabilità.

L’ultimo paradosso. In realtà sia Di Maio che Salvini, al di là del proclami quotidiani di aspirazione a governare, puntano, nei loro retro-pensieri, a nuove elezioni a breve, anche se non lo confesseranno mai, convinti che, nell’attuale situazione di debolezza, non riuscirebbero, stando al governo, a realizzare un solo punto del loro programma, svelando così l’inganno delle loro promesse elettorali irrealizzabili. Preferiscono piuttosto recitare in pubblico la parte in commedia di chi vuole formare un governo, sperando segretamente che in questa legislatura nata morta possano rimanere all’opposizione. Amplierebbero così il proprio patrimonio di consensi, aspirando a governare, nella XIX legislatura, da soli, dopo aver fagocitato, il primo, l’intero elettorato del PD e, il secondo, il residuo elettorato di Forza Italia. In definitiva, anche i vincitori apparenti, nella XVIII legislatura, sono costretti a gettare la spugna.

Fermo restando che queste segrete aspirazioni e questi calcoli futuri dovranno misurarsi con le leggi della matematica e con il teorema dell’impossibilità di Arrow!

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