08/04/2018
Pubblicato da Politica in Penisola il 08/04/2018
Giorno dopo giorno la metamorfosi o, meglio, il trasformismo che Luigi Di Maio, capo politico del M5S auto-candidato alla presidenza del Consiglio dei Ministri, sta rivelando nelle trattative (si fa per dire!) per la formazione di un governo, da lui presieduto, un ritorno ai riti pre e post elettorali della prima repubblica. Stiamo assistendo ad un autentico salto del gambero: dalla celebrata (da lui) terza repubblica alla vituperata (sempre da lui) prima repubblica. È vero che da qualche commentatore politico in vena di ironie antistoriche Di Maio è stato salutato come un novello Giulio Andreotti per il suo pragmatismo a-ideologico indifferente alle categorie della vecchia politica, destra o sinistra, e sollecito a far cuocere il suo “pane di potere” (bread of power) in uno dei “due forni” da lui ritenuti disponibili, il PD o la Lega, purché senza gli ingombranti sconfitti al seguito, Matteo Renzi e Silvio Berlusconi.
Ad Andreotti, a ben vedere, Di Maio potrebbe essere accostato soltanto per l’abitudine di indossare, fors’anche a letto, al posto del pigiama la divisa ministeriale, giacca blu di ordinanza, camicia bianca e cravatta intonata, quest’ultima neppure abbandonata nel pranzo pasquale con i familiari, magari per non disobbedire agli ordini “fashion” di Rocco Casalino o convinto da quest’ultimo, novello Petronio, “arbiter elegantiarum” del movimento, che l’antico adagio debba essere corretto: è solo l’abito a fare il monaco.
IL TRASFORMISMO DI LUIGI DI MAIO
Non si possono catalogare tutti i segni del trasformismo di Di Maio coperto dalla magica parola impiegata da tutti parlamentari voltagabbana della prima e della seconda repubblica, la “responsabilità”, ma basta citarne soltanto alcuni:
– prima era contro tutto e tutti, a prescindere, ora si presta a sottili quanto indecifrabili distinguo;
– prima si dichiarava antiatlantico e antieuropeista, ora corre a rassicurare l’ambasciatore USA, lancia messaggi alla Merkel, si sente vicino a Macron e si dichiara, al Quirinale, filoatlantico e filoeuropeista;
– prima giudicava il PD il male assoluto, ora riconosce i meriti di alcuni ministri democratici;
– prima ripudiava qualsiasi alleanza, al grido di battaglia “governeremo da soli”, ora propone “contratti alla tedesca”, à la carte, per mascherare le proprie contraddizioni;
– prima riteneva i programmi del M5S come intangibili, ora si dichiara pronto a confrontarsi con tutti e, in primis, con Salvini, i cui principali punti programmatici rappresentano l’antitesi dei suoi;
– prima esaltava il reddito di cittadinanza come misura per tutti, ora lo ha ridimensionato come una provvidenza pro-lavoro, comunque revocabile.
Questo trasformismo condito di prontezza, di spregiudicatezza e animato dal rifiuto categorico di qualsiasi classificazione ideologica (sono di destra, di centro e di sinistra) viene percepito dai suoi elettori, suggestionati ancora dal mito del cambiamento sbandierato come un mantra e identificato nel no a Silvio Berlusconi, simbolo negativo del passato regime. Se dovesse cadere nelle prossime settimane anche quest’ultimo niet, il processo trasformistico di Luigi Di Maio sarebbe completo. Una tale mutazione di promesse, di posizioni, di programmi, di principi e di alleanze tuttavia non passerebbe più sotto silenzio e, certamente, le proteste del pubblico pentastellato, vociante dagli spalti del “Colosseo digitale”, arriverebbero fino ai palazzi del potere pentastellato.
Così come avveniva nella prima repubblica, prima della caduta del Muro di Berlino, quando i partiti minori ruotanti intorno alla DC si dilettavano in campagna elettorale con censure critiche e filippiche nei confronti dei democristiani per racimolare qualche centesimo di punto dal granaio del partito di maggioranza, per spenderlo, poi, nelle trattative post elettorali per il governo, per qualche ministero o sottosegretariato in più. Le acrobazie trasformistiche della prima repubblica, però, per la lentezza dei processi comunicazionali, non venivano percepiti dagli elettori o si esprimevano, di rado, nei tempi lunghi, nei contatti con i propri parlamentari nelle sezioni di partito. La democrazia diretta, invece, tramite il web e i Social, definita e-democracy, consente a tutti gli elettori di un partito o di un movimento, peraltro nato in rete, di seguire gli eventi politici quotidiani, di cogliere in tempo reale le incongruenze di un leader e di censurarne le incoerenze trasformistiche.
Ecco perché la potenza del web per i politici ne costituisce anche la debolezza, una camicia di forza che ne preclude la libertà di manovra e di valutazione delle opportunità di scelta. In poche parole il leader diventa “prigioniero” dei giudizi della rete, i famosi like, e di quanto ha dichiarato in passato. Se gli elettori della prima repubblica non rammentavano le promesse dei politici fatte in campagna elettorale, nell’era digitale al contrario la memoria di quanto è stato promesso e per cui ci si è impegnati non viene mai cancellata, al contrario “rinfacciata” criticamente dalla base. Per questa ragione Di Maio non potrà mai cedere su alcuni punti irrinunciabili, come la premiership, in quanto sarebbe pericoloso per la sua leadership e per il Movimento che rischierebbe di esplodere.
Questa fragilità dei leader politici nella democrazia diretta si complica ulteriormente, se si prendono in esame i limiti complessivi della e-democracy, a cominciare dalla mancanza di regole, che restano sempre il fondamento della democrazia moderna.
I LIMITI DELLA E-DEMOCRACY E L’ATTACCO ALLA PIATTAFORMA ROUSSEAU
Senza voler apparire aprioristicamente nemici della tecnologia e, in particolare, nemici della tecnologia digitale applicata alla politica, bisogna porsi una domanda preliminare, fondamentale: possiamo affidare i nostri voti, i nostri giudizi e le nostre scelte che incidono sulla nostra vita, in quanto cittadini e come comunità, avendo la certezza, se non assoluta almeno relativa, che questi dati essenziali al processo democratico non vengano alterati, manipolati e strumentalizzati? Esistono delle regole, il cui mancato rispetto sia controllato e sanzionato dagli Stati sovrani o da parte di organismi indipendenti sovranazionali, che possano garantire la tutela della privacy e la terzietà assoluta di chi detiene la gestione di questi meccanismi informatici con criteri privatistici e finalità di utilitarismo imprenditoriale? La risposta a questi quesiti risulta negativa. Basterebbe considerare lo scandalo che ha coinvolto Facebook sulla vendita di 97 milioni di utenze oggetto di manipolazioni elettoralistiche oppure, per rimanere più vicini al tema in trattazione, l’attacco subito dalla piattaforma Rousseau utilizzata dal M5S la cui versione del Movable Type, essendo vecchia di quasi vent’anni, ha consentito che l’attacco informatico potesse avere successo.
Ciò significa che non siamo ancora pronti per una “democrazia digitale”, non tanto per colpa della tecnologia, quanto per la responsabilità degli uomini, cioè di coloro che utilizzano e gestiscono la tecnologia. L’attacco a Rousseau è stato causato dalla non attivazione di strumenti difensivi contro gli attacchi. Neppure l’aggiornamento dei software, tuttavia, riuscirà a garantire, in assoluto, l’intangibilità dei processi da parte degli hacker. Ad un hacker esperto, infatti, bastano non più di due ore per prendere possesso di una “voting machine” elettronica, se il software non risulta aggiornato e poter così modificare a suo piacimento i voti registrati. Quindi per una democrazia totalmente digitale non siamo ancora pronti sul piano tecnologico e, ancor meno, sul piano umano.
“Occorre – come auspicato da autorevoli studiosi – far maturare la nostra mentalità digitale, capire che il virtuale ha smesso di esistere da un pezzo ed è tutta realtà. Che basta navigare su un sito sbagliato per compromettere un sistema. Che basta scordarsi un clic sulla voce “Update” per far crollare i più lungimiranti sogni rivoluzionari. Non dimentichiamoci che Jean Jacques Rousseau prima di contribuire alla rivoluzione ha studiato per bene la filosofia. Ecco, ispirarsi a un modello e saltare certi passaggi che lo hanno reso fonte d’ispirazione non porta mai a buoni risultati.”
Gli strumenti di e-democracy possono essere impiegati, comunque, come è avvenuto in molti paesi, per migliorare la burocrazia legata alle operazioni di voto (voto elettronico) e per accelerare i processi decisionali a carattere popolare, anche nella funzione legislativa, specie se compartita tra le assemblee elette e il popolo. Se ad iniziative a carattere istituzionale si affiancano iniziative private finalizzate a creare piattaforme di democrazia, diretta e partecipata, che possano incidere sulla vita politica nazionale sostituendo progressivamente i partiti tradizionali ancorché non regolati per legge, il problema delle regole e dei controlli diviene essenziale.
UN FUTURO PIENO DI INCOGNITE
La democrazia rappresentativa di fronte ai progressi della democrazia digitale rischia di scomparire, definitivamente, dopo aver resistito per secoli? La politica non avrà più bisogno della delega in quanto i “cittadini digitali” potranno partecipare direttamente a definire il contenuto delle leggi e le strategie di governo? La democrazia digitale rinnoverà la perfezione dell’antica agorà ateniese? Non esistono risposte certe a questi interrogativi e gli studiosi delle istituzioni democratiche si dividono su due fronti contrapposti, i critici e gli entusiasti:
– i primi, i critici, sostengono che la democrazia per non soccombere avrà bisogno sempre di essere delegata, per garantire le minoranze, essendo impossibile assicurare con gli strumenti digitali un’equa partecipazione al 100% del corpo elettorale. Un regime che non garantisca le minoranze non può essere definito democrazia, al di là degli aggettivi. La perfezione dell’agorà ateniese risulta frutto più di mitologia che di verità storica in quanto, pur prescindendo dagli schiavi, venivano eletti o estratti a sorte dei magistrati e l’assemblea del popolo non aveva tutti i poteri;
– i secondi, gli entusiasti, prevedono che i cittadini nella repubblica elettronica potranno partecipare maggiormente e direttamente alla vita politica, senza intermediari o delegati. In futuro, profetizzano, i cittadini si siederanno direttamente al tavolo del potere politico e con il progresso delle tecnologie interattive diventeranno il quarto ramo del governo e il quarto potere dello Stato.
Sfuggendo alle perplessità dei tecno-critici e all’ottimismo dei tecno-entusiasti ed evitando di fare una gratuita futurologia, sembra prudente oltre che opportuno stare ai fatti, non dimenticando mai che addentrarsi nella giungla del web provoca spesso smarrimento per il caos dei forum, per i milioni di pagine di discussioni inutilmente polemiche, per gli insulti osceni e i giudizi sommari che affollano le strutture orizzontali della comunicazione digitale. I fatti: sia che la democrazia digitale soppianterà del tutto quella rappresentativa, sia che si combineranno tra loro in forme innovative di partecipazione, diretta e indiretta, alla vita pubblica, resta il problema delle regole.
Senza regole e senza il rispetto delle stesse, nonché senza sanzioni per chi le viola, la democrazia non esiste.