02/05/2018
Pubblicato da Politica in Penisola il 02/05/2018
Notizie confortanti, per gli illusi, gli ingenui o i visionari, hanno caratterizzato la settimana politica trascorsa e alimentato, negli stessi soggetti che sovrabbondano nelle italiche contrade, fiduciose e salvifiche attese per gli sviluppi positivi, in questa settimana, delle cosiddette trattative (o, meglio, degli scambi mediatici), tra i cinquestelle e i democratici, dopo la richiesta chiusura del forno leghista, per il governo del nostro paese, sulla base delle dichiarazioni del presidente della Camera dei Deputati, Roberto Fico, a conclusione del secondo mandato esplorativo a lui affidato dal presidente della Repubblica Sergio Mattarella.
Fico, dopo aver rassegnato al Capo dello Stato i risultati del doppio giro di colloqui con le delegazioni del M5S e del PD, ha espresso, urbi et orbi, palese soddisfazione per l’esito positivo del mandato, quasi a volersene liberare quanto prima, poiché, a suo dire, le due parti avrebbero presto avviato il loro confronto diretto sui contenuti programmatici per la formazione di una maggioranza e di un governo M5S-PD, come se i vecchi arcinemici, per l’intercessione di Fico, si fossero di colpo riconciliati per perseguire il “bene comune” degli italiani.
Soppesando bene, con un minimo di realismo politico, le dichiarazioni rese dai capi delle delegazioni – Luigi Di Maio e Maurizio Martina – il capo politico e il reggente, le reazioni sconcertate e aggressive, se non verbalmente violente verso i vertici, dei rispettivi fan delle opposte fazioni, abituate a nutrirsi fino a ieri, sul web e sulle piazze, del sangue dei denigrati rivali, nonché, nelle ore a seguire, le precisazioni e le puntualizzazioni degli altri componenti delle delegazioni e di diversi esponenti dei rispettivi partiti, specie dei democratici di rito renziano, è risultato che:
1) soltanto la direzione politica del PD, convocata per il 3 maggio, avrebbe potuto autorizzare l’avvio dei colloqui con la controparte sulla base dei “cento punti” del programma elettorale e di altre condizioni preliminari, non escluso il cambio della premiership;
2) il M5S non avrebbe mai rinunziato alla premiership di Di Maio e ai punti più qualificanti del programma grillino, puntando non ad un’alleanza politica (per carità!), quanto, ed esclusivamente, senza doversi sporcare le mani, alla sottoscrizione di un “contratto al rialzo” la cui interpretazione semiologica andrebbe affidata più che ai numerosi esegeti del grillismo ad un consulto di autorevoli psicologi.
Intanto, sul fronte del centrodestra, è continuata la zuffa dialettica (si fa per dire!) tra Matteo Salvini e Silvio Berlusconi, condita da preavvisi di ricatto, sottili perfidie e esplicite rivalità, con gli immancabili e falsi abbracci finali a favore degli allocchi, in attesa dei risultati delle elezioni regionali nel Friuli-Venezia Giulia. Il temporeggiatore leghista, sempre più convinto della sua tattica vincente dell’aspettativa, sia sul fronte interno (l’eredità di Forza Italia, passo dopo passo, gli cadrà in grembo come un frutto maturo! La “robba” elettorale dell’ex cavaliere non gli sfuggirà, se saprà attendere!) che su quello esterno (il confronto-scontro, presente e futuro, con Di Maio e il M5S!) non ha mai rinunziato a tuonare, sui social e negli accesi comizi in terra friulana, contro l’alleanza “innaturale” tra M5S e il PD, l’alleanza dei “secondi e dei terzi”, un accordo di puro potere contro la volontà popolare che, il 4 marzo, aveva punito sonoramente i “cinque anni di malgoverno” dei democratici, arrivando a minacciare, senza risparmiare allusivamente anche il presidente della Repubblica, in caso di realizzazione dell’infausto connubio, la ribellione delle regioni del Nord e una “passeggiata” di protesta a Roma (dove? Sotto Palazzo Chigi, in piazza del Quirinale oppure in Villa Borghese?) di milioni di cittadini.
Le allusioni cripto-fasciste di Salvini, uomo forte, timorato (chi si potrà mai dimenticare il Vangelo e il rosario nel comizio di Milano, a piazza del Duomo?) e decisionista, sono diventate un mantra quotidiano, come la litania polemica, elettoralmente redditizia, contro il suo bersaglio preferito, politico, personale e familiare, l’ultrademonizzato Matteo Renzi, pur sapendo che, per paradosso, sul fronte opposto, l’ex segretario del PD nutre la identica avversità, se non maggiore, contro la paventata alleanza M5S-PD. Cosa che gli accadimenti si sono incaricati di dimostrare, squarciando il “velo di Maya”, chiedendo venia a Schopenhauer, degli illusi, degli ingenui e dei visionari che continuano ad ignorare quanto la politica sia una scienza, ancorché non esatta.
LE ALLEANZE CENTRODESTRA-M5S, M5S-LEGA e M5S-PD: CASTELLI DI CARTAPESTA
Due eventi temporalmente coincidenti, infatti, hanno squarciato il velo delle illusioni e, di colpo, bruciato l’ultimo (l’alleanza M5S-PD) dei castelli di cartapesta, costruiti in due mesi di logoranti consultazioni, costellate da una sarabanda nauseante di ipocrite dichiarazioni, di ricatti espliciti, di lotte fratricide, di regolamenti di conti, di calcoli personali, di retroscena giornalistici del tutto improbabili ed infantili, quanto incaute, esercitazioni di presuntuoso leaderismo politico:
1) l’articolata (ne ha avuto per tutti!) intervista televisiva rilasciata a Fabio Fazio da Matteo Renzi, che ha posto fine alle fantasticherie dei “governisti” del PD e una pietra tombale sull’ipotesi che i democratici possano formare un governo, sottoscrivere un contratto al rialzo e votare la fiducia ad un esecutivo presieduto da Luigi Di Maio: cioè rimanere imprigionati nella trappola del “fornaretto di Pomigliano d’Arco”;
2) la schiacciante vittoria elettorale in Friuli-Venezia Giulia della Lega (57%), la tenuta di Forza Italia e del PD, nonché il netto arretramento, dopo quello in Molise, del M5S, a testimonianza che non si tratta di un fenomeno localistico, ma di una linea di tendenza nazionale che farà, presto o tardi, implodere il movimento grillino.
Le reazioni, scomposte o entusiastiche, a questi due eventi hanno testimoniato come i partiti, nessuno escluso, abbiano prodotto un autentico disastro politico, uno scenario di macerie, che mette seriamente a repentaglio il futuro del nostro paese (il baratro temuto!). Senza voler apparire come l’oracolo di Delfi, nelle pagine di questo diario sono state esaminate in dettaglio le cause remote e prossime di questo prevedibilissimo disastro politico che certifica l’inaffidabilità e la non credibilità di tutto il ceto politico italiano, con un’unica via di uscita dalla paralisi, la sola ormai seriamente praticabile: un governo del Presidente, composto da personalità di alto profilo istituzionale, inviato alle Camere senza maggioranza, precostituita o contrattata, mettendo così i tre poli dell’impotenza con le spalle al muro.
UN GOVERNO-PONTE DI “SICUREZZA E GARANZIA ISTITUZIONALE”
Un governo-ponte di sicurezza e di garanzia istituzionale, tra il presente e le nuove elezioni, da convocare per la prima decade di ottobre. Non spaventi il sostantivo “sicurezza”, perché di questo ormai si tratta. Un esecutivo di profilo istituzionale, non un Monti-bis tecnico-economico (Dio ce ne scampi!), con un mandato di pochi mesi, affidato a mani sicure (Sabino Cassese resta l’opzione più credibile!) che si presenti in Parlamento con un disegno di legge di riforma elettorale, in grado di assicurare, con un forte premio di maggioranza o un ballottaggio, la formazione di un governo stabile, di gestire le indifferibili urgenze governative e di assicurate la nostra rappresentanza politica, a livello europeo e internazionale. Un esecutivo che avrebbe anche il vantaggio di rinviare l’ostilità dei mercati finanziari che prorogherebbero l’attesa, finora rispettata, fino alla formazione di un governo politico, in quel di ottobre.
Soltanto un successivo governo politico, infatti, coeso e forte del consenso elettorale conseguito, sorretto da una maggioranza non improvvisata o contraddittoria, potrebbe delineare un programma di legislatura non frutto di compromessi tra opposti, comprendente anche le indifferibili riforme istituzionali e affrontare, sia pure affannosamente, negli ultimi mesi del 2018, la nuova legge di bilancio, il contenimento del deficit, l’allentamento del debito pubblico, nonché varare una massiccia manovra correttiva, nell’ordine di quasi 30 miliardi di euro. Quest’ultima, lasciata fuori dal Documento di Economia e Finanza (DEF) del Governo Gentiloni, sarebbe necessaria a coprire “non solo” le clausole di salvaguardia, ma anche altri buchi evitando, in extremis, un aumento dell’IVA, micidiale per la nostra tenue ripresa economica (+ 1,5% di PIL, nel 2019)
Questo parlamento, condannato in ogni caso ad una vita breve, va messo da Mattarella di fronte alle proprie responsabilità. Allo stesso modo i partiti e i gruppi parlamentari, che dovranno scegliere se andare alle elezioni di ottobre con una nuova legge elettorale o continuare ancora con l’odiato “Rosatellum”; se presentarsi ancora agli elettori con promesse inattuabili o proporre programmi fattibili; se seminare ancora odio sociale e rancore in un paese già tanto sofferente, oppure riaccendere la speranza degli italiani nel domani.
Le forze politiche agli inizi protesteranno contro le decisioni presidenziali, poi si convinceranno che questa sorta di loro quarantena estiva potrebbe essere ben sfruttata per prepararsi al decisivo confronto-scontro elettorale di autunno, con vecchi o nuovi leader, con programmi e strategie adeguate alle responsabilità da assumere per la guida del nostro paese.
I PARTITI, CALDERONI POST IDEOLOGICI
La caduta delle ideologie e, con esse, anche dei valori spirituali e delle appartenenze ideali ha ridotto, in nome di un malinteso pragmatismo e di un utilitarismo tutto nostrano, i partiti ad una farragine confusa di interessi, a miscugli indefiniti di identità disparate. Quello che gli anglosassoni chiamano “hotchpotch: a confused mixture of different things”.
Non si sottraggono a questo degrado i vecchi partiti: la Lega di Salvini che rastrella di tutto sul territorio nazionale; Forza Italia, che soffre il declino del suo dominus e dante causa e la cui nomenclatura di signorotti elettorali si tiene pronta a rifugiarsi sulla scialuppa leghista; il PD post renziano, ma renziano tuttora, dilaniato ancora, nonostante la scissione a sinistra, in correnti personalistiche che si affronteranno domani in direzione.
Il prototipo per eccellenza di “hotchpotch” all’italiana, tuttavia, rimane il M5S per la sua stessa costituzione (accogliere tutti senza etichette partitiche), per la sua gestione (affidata ad un’azienda privata), per la genericità programmatica (via vai di proposte ad ogni alito di vento digitale) e per la sua limitata capacità di azione, nel dialogo con le altre forze politiche. Non destra, non sinistra, non centro, non conservatorismo, non progressismo, non bianco, non nero, solo grigio. Se questo grigiore è servito a strappare consensi sul web, nella “fase destruens” del vecchio sistema, urlando contro tutti e accusando di ogni nefandezza gli avversari, nella “fase costruens” ha mostrato il fiato, disvelando tutta la pochezza di contenuti, di tattica e di strategia. Generici riferimenti al bene dei cittadini non bastano, anche quando l’osannato capo politico ha chiesto l’aiuto di un cattedratico, con largo dispendio di risorse mediatiche, per mettere in bella copia il “niente” (i famosi dieci punti, presentati come i dieci comandamenti!).
IL FALLIMENTO POLITICO DI LUIGI DI MAIO
Questa è stata la causa principale del fallimento politico dell’esordiente Di Maio, il quale ha aperto e chiuso, a suo piacimento, i due forni, nei quali voleva cuocere prima il leghista, facendolo rompere con Berlusconi, e poi rosolare, a fuoco lento, il PD, confinandolo nel ruolo di cugino povero dell’alleanza. Trappole bambinesche e puerili, predisposte da chi, in ultimo, ne è rimasto prigioniero. Senza mai dismettere quell’atteggiamento arrogante e immaturo, da principiante presuntuoso, proteso all’imposizione del suo dire, che ha già rovinato Matteo Renzi, con la pretesa di ottenere “a priori” la presidenza del Consiglio dei Ministri, quasi fosse un nuovo “unto del Signore“, investito a furor di popolo. Vittima, quindi, di una sovraesposizione mediatica e della “democrazia social“, che gli ha nuociuto in termini di credibilità e di capacità di azione.
LA SAGGEZZA POLITICA DI CHURCILL
Ora che la telenovela delle consultazioni si è conclusa, consumata sull’otto volante delle notizie, vere o false, diffuse con il linguaggio sintetico dei tweet e dei sms, spetta al Capo dello Stato assumersi la coraggiosa responsabilità di dare al nostro paese un “governo-ponte di sicurezza e garanzia istituzionale”, che ci accompagni, senza troppe avventure, alle nuove elezioni politiche di ottobre.
Anche per questa auspicabile previsione, tuttavia, si resta sempre soggetti all’immortale saggezza politica di Winston Churchill: “L’abilità in politica consiste nella capacità di prevedere ciò che accadrà domani, la settimana prossima, il mese prossimo, l’anno prossimo. E successivamente nell’essere in grado di spiegare perché non è avvenuto”