02/10/2021
RIFLESSIONI E SPUNTI PER IL DIBATTITO
di Raffaele Lauro
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1. I NUOVI EQUILIBRI GEOPOLITICI MONDIALI
PREMESSA. Gli storici definiranno il 2021 l’anno della svolta definitiva negli equilibri geopolitici mondiali, dopo la fine della cosiddetta guerra fredda, nata a Yalta, tra Occidente democratico e Oriente (Russia) comunista, e l’emergere di nuove potenze regionali. Questo passaggio epocale da un bipolarismo, già in crisi di identità, a un multipolarismo, renderà ancora più difficile e complessa la sfida per affrontare le incipienti crisi globali (dalle crisi ambientali, ormai irreversibili, alle crisi pandemiche, anch’esse in agguato sul futuro dell’umanità; dalle crisi della globalizzazione a quelle delle materie prime, con potenziali conflitti per accaparrarsene; dalle crisi dei modelli di sviluppo economico liberistici, fondati sullo sfruttamento indiscriminato delle risorse naturali, a quelle dell’alimentazione, riguardante una quota rilevante della popolazione mondiale). Sullo scenario multipolare, tuttavia, domina (e dominerà nei prossimi decenni) il conflitto, ormai palese, tra gli Stati Uniti d’America e la Cina, la prima travagliata da una pericolosa crisi interna, la seconda sempre più determinata a imporre il suo disegno politico egemonico, travestito da imperialismo economico.
GLI USA DI BIDEN. Dopo l’attacco terroristico alle Torri Gemelle dell’11 settembre 2001, gli Stati Uniti reagirono, lanciando la guerra in Afghanistan, come guerra globale contro il terrorismo di matrice islamica. Vent’anni dopo, come in Viêtnam, si è verificata la seconda grande sconfitta, politica, militare e strategica, del gigante americano, con diverse aggravanti: l’aver coinvolto la NATO e gli alleati occidentali, decidendo, poi, il ritiro senza concordarlo con gli stessi, ma soltanto “informandoli”; l’aver degradato, di colpo, il conflitto da globale a regionale, senza aver valutato le conseguenze geopolitiche, strategiche e, principalmente, umanitarie per il popolo afghano; e, evento del tutto sconcertante, nell’essersi lasciato sorprendere dalla fuga improvvisa dei governanti e dallo spappolamento, ad horas, dell’esercito afghano, alla faccia del lavoro dei consiglieri e degli istruttori militari occidentali. Un’autentica beffa per l’intelligence, non soltanto americana, ad oggi del tutto inspiegabile! Ad una prima analisi, appare evidente che le cause di questa disfatta, a partire dalla ragione principale, coincidano perfettamente con quelle della sconfitta in Viêtnam, però con un costo “monstre” (si calcola una cifra intorno a migliaia di miliardi di dollari). La ragione principale di questo cambio di rotta rimane lo stesso: l’insostenibilità, per una democrazia, a reggere una guerra senza fine e senza risultati stabilizzanti. Specie di una democrazia in crisi, come quella americana, tuttora lacerata da un conflitto insuperabile tra gli opposti partiti, dopo una campagna elettorale devastante, con risultati contestati e senza riconoscimenti reciproci, nonché con un punto di caduta eversivo, senza precedenti: l’assalto dei fanatici trumpiani a Capitol Hill e al Congresso, cuore della democrazia statunitense. Saranno sempre gli storici, a parte gli errori evidenziati, a giudicare l’operato della presidenza Biden, se determinato da realismo o da improvvisazione, tuttavia con la costatazione degli abbagli, presi anche dai suoi predecessori, compreso l’ultimo, lo sbraitante Trump, che lo accusa di tradimento della causa, a conferma del clima rissoso che continua a tenere in ostaggio la vita del paese. Pesano, comunque, pesanti interrogativi sul futuro. Riusciranno gli Stati Uniti: a ritrovare il filo della loro centralità, a livello mondiale, memori della dottrina Truman, come accade dopo la prima sconfitta; a rilanciare la NATO e a ricomporre i rapporti lacerati con gli alleati europei e, non da ultimo, a ricostruire il “sogno americano”, prima per il loro popolo e, poi, per quanti hanno guardato a loro come il luogo sacro della libertà e della democrazia? “America is back”, non solo chiacchiere? O prevarrà la dottrina di Xi Jinping, la vittoria delle dittature sulle democrazie e l’ecclissi definitiva della “pax americana”, sostituita da quella cinese, con l’Occidente che declina e l’Oriente che sorge?
LA CINA DI XI JINPING. Dopo la morte di Mao e lo sconquasso economico, generato dalla “Rivoluzione culturale”, la seconda generazione dei dirigenti comunisti, incarnata da Deng Xiaoping, aveva inaugurato la fase della modernizzazione della Cina, con l’apertura al commercio estero e l’attrazione degli investimenti stranieri sul territorio cinese, mediante incentivi fiscali e doganali. Si volle leggere, in quella svolta epocale, la fine delle vecchie ideologie, marxiste e leniste, il decollo del “socialismo di mercato” e l’atto di nascita di una futura potenza economica, industriale, commerciale, finanziaria e tecnologica, di rango mondiale. Le altre due generazioni, successive a Deng, padre della Cina moderna, impersonate da Jiang Zemin e da Hu Jintao, continuarono il lavoro di modernizzazione fino alla presa di potere di Xi Jinping, nel 1973, la cui dottrina politica, in continuità con il recente passato, era sintetizzata nello slogan del “sogno cinese”: l’Occidente declina, l’Oriente sorge. Un sogno, inteso come risorgimento e come inaugurazione di una nuova era, in cui la Cina aspira a dominare la scena politica internazionale, al posto degli Stati Uniti, per diventare, entro un trentennio, una nazione socialista “forte, democratica, civilizzata, armoniosa e moderna”. Utilizzando, a tal fine, due leve operative: quella interna (la forte presenza del partito nella società, con un controllo capillare, assicurato dal binomio partito-esercito) e quella esterna (la penetrazione culturale ed economica delle rotte commerciali, con il piano della “Via della Seta”, finalizzato a connettere la Cina con l’Europa, il Medio Oriente e il Sud-Est Asiatico). Un neoimperialismo economico, quindi, a supporto dell’aspirazione a diventare la prima potenza mondiale, in grado di affermare la nuova “pax cinese”, al posto della “pax americana”. Un progetto non segreto, ma pubblico, fulcro del pensiero politico di Xi Jinping. Di rilievo, l’infiltrazione proprietaria e gestionale nei porti commerciali europei, primo il Pireo e ultimo Amburgo.
I NEMICI STRISCIANTI. Resterà da valutare, nel contenimento dell’espansionismo cinese, dopo le convergenze antiamericane e la spartizione delle sfere di influenza nelle repubbliche dell’Asia centrale e nello stesso Afghanistan, il ruolo che vorranno giocare l’autocrazia russa di Putin e altre potenze regionali, a partire dall’India e dalla Turchia di Erdogan. Di contro, bisognerà comprendere, come e in quale misura, gli Stati Uniti, nel superamento del loro neoisolazionismo, saranno supportati dagli alleati tradizionali, europei e non, che siedono nel G7, al fine di rinvigorire l’alleanza atlantica, non più a parole, ma contribuendo in maniera concreta. Su questo scenario internazionale, così cangiante e ribollente, peseranno anche tre nemici striscianti: la pandemia sempre più endemica; la ripresa degli attacchi terroristici dell’Isis, che non tarderanno a manifestarsi, e il controllo del cyber spazio da parte dei regimi totalitari, non solo quello cinese. Nonostante il quadro, tutt’altro che confortante, resiste, a fatica, la fiducia nell’astuzia della Ragione, che governa la Storia, intesa come Storia della libertà, il cui spirito potrebbe “trasformarsi e trasfigurarsi” (Hegel), sorprendendo i tiranni del tempo presente.
2. IL FUTURO DELL’EUROPA
IL VASO DI COCCIO. L’Unione Europea, in quanto tale, non fu mobilitata dal presidente Bush jr., nella “coalizione dei volenterosi”, guidata dagli Stati Uniti, che, dopo l’attentato terroristico di matrice islamica del 2001 a New York, alle Torri Gemelle, insieme con la NATO e alcuni paesi alleati, tra i quali la Germania, la Francia e l’Italia, portò la guerra in Afghanistan per distruggere le basi operative delle organizzazioni terroristiche e “introdurre” un regime democratico. Dopo vent’anni (2001/2021), la guerra si è conclusa con la sconfitta e la caotica ritirata degli americani, della NATO e di tutti i paesi alleati della coalizione. Il presidente Biden ha portato (male, anzi malissimo!) a conclusione un disimpegno, insito già negli sconsiderati “Accordi di Doha” (febbraio 2020), sottoscritti, superficialmente e inanemente, dalla presidenza Trump. La tragedia che si è consumata era prevedibilissima, anche se le incaute e improvvisate modalità del ritiro (altro che una programmata exit strategy!), hanno esposto la presidenza Biden e l’Occidente a una figuraccia planetaria, che pone interrogativi sul futuro ruolo di guida degli USA, sulla riorganizzazione della NATO, sui rapporti con gli alleati europei e sul passaggio dal bipolarismo, nato a Yalta, a un multipolarismo, soggetto alla crescente pressione della Cina di Xi, della Russia di Putin e della Turchia di Erdogan. Questo sconvolgimento geo-politico mondiale, tuttavia, ha come principale vittima collaterale proprio l’Unione Europea, come si è registrato anche nello scontro USA-Francia sulla fornitura dei sommergibili nucleari agli alleati nel Pacifico. Per cui, la crisi americana si è tradotta in una crisi dell’Occidente e nella constatazione definitiva della debolezza del vecchio continente e dell’inconsistenza strategica della sua Unione: gigante economico forse, nano politico certo, perché senza una politica estera unica, senza una difesa comune e senza, nel bailamme delle posizioni discordanti dei vari leader degli Stati membri, la possibilità di far pesare una posizione unica del continente europeo. Bailamme che si accentuerà dopo la fine dell’era Merkel e i diversi equilibri di governo in Germania. Con il grande pericolo, di fronte alle autocrazie imperiali emergenti e le democrazie autoritarie striscianti, sempre più diffuse, di vedere soffocate, come un residuato storico del Novecento, le democrazie liberali e, con esse, la cultura della libertà, la tutela dei diritti costituzionali delle persone e il rispetto delle regole. Quella civiltà occidentale, di ispirazione cristiana, dunque, che impone non solo di proclamare i diritti degli afghani e la dignità delle donne, ma di operare per rendere concreta, anche in Afghanistan, la tutela di quei diritti. Non tutto è perduto, ma si rende necessario, e urgente, reagire a una decadenza senza ritorno, realizzando una strategia a tappe forzate altrimenti l’Europa diventerà il classico “vaso di coccio tra i vasi di ferro”, di manzoniana memoria. Molti sperano in una “risorgenza europea”, con la leadership di Draghi, a partire dal prossimo G20, faticosamente convocato sull’Afghanistan. Non basta il prestigio di una persona, pur rilevante, per sopperire alla debolezza, istituzionale e politica, dell’Unione Europea.
LE SCELTE NECESSARIE. Si auspica, tuttavia, che le scelte, immediate e future, dell’Unione Europea, nonostante gli errori americani, non smarriscano la vocazione democratica e lo spirito della solidarietà atlantica. Pur facendo da ponte diplomatico con la Russia e con la Cina, l’Europa dovrà aiutare gli Stati Uniti ad archiviare l’attuale crisi di identità, ad evitare il pericolo di un neoisolazionismo e a riacquistare la dignità e il ruolo di potenza guida dell’Occidente. Naturalmente ripartendo da una base paritaria, sia nella ridefinizione della missione della NATO, che nella gestione della stessa, onde evitare le incomprensioni attuali. Tutto ciò sarà possibile, soltanto se riuscirà a superare il suo “nanismo politico”, accelerando l’unità politica delle istituzioni europee: sul fronte delle relazioni internazionali, su un programma di difesa comune, a partire dalla cyber security, inserito nel quadro della nuova NATO e, in primis, nelle politiche di accoglienza, finora disattese. Le politiche economiche e monetarie comuni, pur necessarie, non bastano più. Ora serve, con il coraggio, con la determinazione e con il sacrificio delle vecchie rendite di posizione di ciascun Stato, operare quella svolta politico-istituzionale, tanto sognata dai padri fondatori della comunità europea. É arrivato, dunque, il momento di chiederci cosa siamo e cosa vogliamo essere, noi europei. Il re è nudo! E non possiamo più pretendere di essere difesi, senza costi adeguati, badando solo a fare affari con i nuovi imperi d’Oriente. Per cui, sarà vitale un presa di coscienza della realtà, da parte dell’Unione e di tutti gli Stati membri, nessuno escluso, con le decisioni conseguenti da assumere. In mancanza, il vecchio continente, nei nuovi equilibri geopolitici mondiali, sarà costretto a rinnegare la sua antica storia di civiltà democratica e, con essa, la sua libertà e il suo destino nel mondo. Senza ulteriori appelli!
3. LA RIPRESA ECONOMICA
LA TENUTA DEL DOVERNO DRAGHI. La ripresa economica, nel nostro paese, dipende, in questa delicata fase, dalla tenuta del Governo Draghi nel mantenere la rotta sugli obiettivi, per i quali è stato costituito, di fronte al fallimento dei partiti: l’avvio delle riforme strutturali e l’attuazione del nostro Recovery Plan, nel rispetto dei tempi e delle modalità di realizzazione previste, nonché nell’impiego produttivo delle risorse europee. Infatti, mentre i leader della cosiddetta maggioranza continuano ad azzuffarsi tra di loro, il premier, con il suo realistico, coerente e articolato aplomb, sta restituendo al paese e al mondo produttivo una seria prospettiva di uscita dalla crisi. Ma non basta. Senza un rigore assoluto nel contenimento pandemico e senza il varo delle altre riforme strutturali, a partire dal fisco, la ripresa economica resterà fragile e non durevole, nonostante il previsto rimbalzo del PIL 2021 al 6%. Non basta non aumentare le tasse, ma bisogna ridurle sui costi del lavoro per restituire nuovo respiro finanziario alle imprese, fin dalla finanziaria 2022. Draghi deve resistere alla solita litania di richieste dei partiti della cosiddetta maggioranza, quasi fossimo alla vigilia di una consultazioni politica generale. Tra chi, nei giorni scorsi, ha rivendicato, come propria, l’idea di tornare alla concertazione politico-sociale del passato e chi si è limitato a presentare la propria ‘lista della spesa’ con le vecchie proposte identitarie, si è registrata un’incompatibilità assoluta, non solo finanziaria, dei contenuti proposti tra loro, nonché una distonia complessiva, rispetto alla rotta tracciata da Draghi e allo spirito unitario della sua azione di governo, che ha inteso rilanciare. Sussiste il timore che il richiamo di Draghi a un “Patto per l’Italia”, frainteso strumentalmente dai partiti, possa trasformarsi in una gabbia per il governo, nella quale consumarsi in estenuanti mediazioni, tra partiti, imprese e sindacati, a scapito della realizzazione delle riforme strutturali e dell’attuazione dei collegati progetti del PNRR. Progetti, tra l’altro, che, in alcuni comparti ministeriali, risultano in notevole ritardo, rispetto al cronoprogramma. Ritardi che, purtroppo, potrebbero pregiudicare l’ulteriore erogazione dei fondi europei, legati al Recovery Fund, nonché alimentare, nell’ambito dell’Unione, questa volta a ragione, le censure sull’incapacità di spesa e sul mancato rispetto degli impegni assunti da parte del nostro paese. Esiste, quindi, un problema di stabilità politica, che non riguarda solo il presente, ma anche l’immediato futuro, dopo l’elezione, nel febbraio prossimo, del nuovo presidente della Repubblica. E, sul punto, il quadro risulta denso di interrogativi irrisolti.
LE COALIZIONI OBBLIGATE. Non appare, quindi, intempestivo il dibattito che sta emergendo, tra autorevoli commentatori, sull’assetto, presente e futuro, delle due potenziali coalizioni, che dovrebbero misurarsi, alle prossime elezioni politiche (2022?, 2023?), chiedere a un corpo elettorale, flagellato dalla crisi, sanitaria ed economica, psicologicamente stremato e deluso dalla nostra classe dirigente, il mandato a governare il paese per il dopo pandemia, con tutto il carico micidiale di problemi sul tappetto, sia a livello nazionale che internazionale, sia in politica interna che estera. Va premesso che, allo stato, a causa della legge elettorale vigente e del taglio dei parlamentari, le due coalizioni sono “obbligate”, tattiche, non frutto di una libera scelta, nonché di convergenze ideali e programmatiche consolidate. Ciò lascia presagire una lotta all’ultimo sangue per le candidature nei collegi sicuri e programmi annacquati, frutto di compromessi e condizionati, sui territori, dai “signori del voto” e da interessi, illegali e criminali. Certamente mancano del tutto, allo stato, visioni prospettiche e progettualità, persino “sogni”, all’altezza delle sfide dell’immediato presente e del complesso futuro, in grado di ripristinare un rapporto fiduciario tra cittadino e istituzioni, tra elettore e mondo politico. Per cui, risulta ipotizzabile, fin da ora, un astensionismo record e un voto di protesta verso i partiti che scenderanno in campo, con ulteriori disgregazioni delle rappresentanze, pregiudizievoli a stabili maggioranze parlamentari. Difatti, il pericolo di una nuova ingovernabilità e di un’involuzione democratica!
I FANTASMI DEL PASSATO. Le singole componenti delle due potenziali coalizioni, infatti, persino al loro interno, manifestano, quotidianamente: contrasti sotterranei per le future leadership; posizioni divergenti e inconciliabilili sulla politica estera, anche di fronte a scenari drammatici di crisi, come quella afghana e la rottura degli equilibri geopolitici mondiali; contraddizioni e conflitti su tutti i provvedimenti del governo pro tempore, riguardanti riforme vitali per la ricrescita del nostro paese. Si conferma, quindi, una sostanziale inadeguatezza del ceto politico, fatta di limiti culturali, costitutivi e formativi, retaggio anche di dannose eredità del passato, risalenti alla prima e alla seconda repubblica. Tali conclamati limiti impediscono, al presente, di immaginare che le due ipotizzate coalizioni possano confrontarsi, civilmente, su programmi, concreti e fattibili, riguardanti: la ricostruzione politica, morale, civile e materiale del nostro paese; la riforma della costituzione e dell’articolazione istituzionale tra Stato e Regioni, che ha rivelato pericolose fratture; la tutela e la salvaguardia delle libertà individuali e dei diritti costituzionali dei cittadini; la lotta alla criminalità organizzata, caduta nel dimenticatoio, tuttora sotterranea e imperante. Al contrario, affiorano fantasmi del passato, sconfitti dalla Storia (rigurgiti neofascisti, populismi anticasta, aspirazioni censorie di rapper e minestre riscaldate, vecchi specchietti per le allodole, come le cosiddette “rivoluzioni”, popolari o liberali). Purtroppo, l’unica rivoluzione che servirebbe, una “rivoluzione veramente democratica”, attesa da decenni, rischia di rimanere confinata, anche nella prossima legislatura repubblicana, nell’irrealtá.
4. LE PROSPETTIVE DEL TURISMO: AMBIENTE, CULTURA E SOSTENIBILITÀ
LA CENERENTOLA. Il nostro turismo è stato la cenerentola del nostro sistema economico, da sempre, elogiato a parole per l’apporto determinante al PIL delle regioni e a livello nazionale, mortificato, nei fatti, come si è dimostrato per i limitati sostegni al settore nel corso della pandemia. Il trionfalismo di questi giorni sull’avvenuto recupero di questa estate può diventare una pericolosa illusione, anche per il 2022, perché, al bilancio 2021, mancano ben 7 miliardi di euro, specie per la caduta della domanda estera. Appare evidente che le prospettive del turismo dipendano dalla ripresa economica generale, dalla sicurezza sanitaria postpandemica e dal potenziamento del trinomio ambiente, cultura e sostenibilità. Nonché dalle politiche, nazionali e regionali, finalizzare a questo rafforzamento, che non sarà indolore e senza costi. Richiamo, a tal fine, due eventi di interesse per il settore: il G20 della Cultura di Roma e il convegno di Milano sul tema “Hotellerie: il nuovo lusso è la sostenibilità”, al quale ho partecipato come moderatore.
G20 CULTURA E SOSTENIBILITÀ. Il G20 della Cultura si è concluso, a Roma, con la firma, a Palazzo Barberini, della “Dichiarazione di Roma”, un documento in 32 punti, che riconosce e promuove la cultura, come fattore cruciale per la crescita sostenibile dell’economia, nella fase di ripresa post pandemia. La protezione e la valorizzazione del nostro patrimonio culturale e paesaggistico rappresentano un volano per il rilancio del nostro turismo. Senza le bellezze naturali e artistiche, il turismo non avrà futuro. Bisogna, quindi, aderire alle linee-guida del documento, nella convinzione che il nuovo sistema economico dovrà essere ancorato, sia pur per gradi, al criterio della sostenibilità, investendo, in primis, sull’inscindibile binomio cultura-turismo. Un impegno, questo, che non può riguardare soltanto le istituzioni pubbliche, internazionali, nazionali e locali, ma anche il mondo imprenditoriale. Un impegno ribadito, nel corso del convegno, organizzato, a Milano, l’8 settembre 2021, nell’ambito del Salone del Mobile, sul tema “Hotellerie: il nuovo lusso è la sostenibilità”, da eminenti rappresentanti del comparto turistico-alberghiero, nazionale e internazionale.
5. CONCLUSIONI O, MEGLIO, INTERROGATIVI
La civiltà occidentale, le cui matrici rimangono la Grecia e il Cristianesimo, riuscirà a superare le contraddizioni di uno sviluppo economico, aggressivo e parossistico, con il quale è stata identificata e per il quale rischia di soccombere? L’Occidente è veramente al suo tramonto, in rotta, e la crisi delle democrazie del tutto irreversibile? Basterà ritornare a una “dialettica negativa” e alla riscoperta di un pensiero critico, ormai latitante, che riesamini il concetto di “progresso”, per evitare, come in passato, che l’illuminismo partorisca nuovi mostri, come il negazionismo antiscientifico, e prepari nuovi roghi per bruciare le streghe?